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Molfetta, via al comitato cittadino per il referendum contro le modifiche allo Statuto dei lavoratori
11 ottobre 2012

MOLFETTA - Sel, Prc, Cobas, Idv, Fiom-Cgil, Spi-Cgil hanno costituito un comitato cittadino a Molfetta per il referendum contro le modifiche allo Statuto dei lavoratori.
«Tutte le ultime modifiche in materia di diritto del lavoro attuate dai governi Berlusconi e Monti hanno una sola logica, riportare le lancette della storia indietro all'ottocento, quando i lavoratori erano soltanto merce che poteva essere sfruttata e poi buttata via – dicono in un documento -.
L'articolo 8 della legge 148 del 2011 permette di derogare dai contratti nazionali di lavoro tramite accordi sindacali raggiunti in sede aziendale anche solo da alcuni sindacati. In virtù di quell'articolo la Fiom è stata esclusa dalla stessa agibilità sindacale entro la Fiat. Una condizione addirittura peggiore dei bui anni cinquanta.
Con le modificazioni dell'art 18 dello statuto dei lavoratori introdotte dalla riforma Fornero la reintegra in caso di licenziamento ingiustificato diventa un miraggio, un ipotesi residuale, e non un diritto inalienabile del lavoratore.
Sabato 13 ottobre comincia la raccolta delle firme, per i referendum relativi all'abrogazione dell'articolo 8 della legge 14 settembre 2011 n°148 risalente al governo Berlusconi, e delle modificazioni introdotte dal governo Monti all'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Tutte queste ragioni hanno portato i circoli locali di Sel, Prc, Cobas, Idv,  Fiom-Cgil, Spi-Cgil alla costituzione di un comitato cittadino per i referendum.
Questi sono i temi della conferenza stampa che si terrà venerdì 12 ottobre presso la sala Turtur,(centro antico) alle ore 19».
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Dovrebbe essere una massima di governo cercare di elevare il livello della vita materiale del popolo oltre un certo limite. In questo indirizzo non è da ricercare uno speciale motivo “umanitario” e neppure una tendenza “democratica”: anche il governo più oligarchico e reazionario dovrebbe riconoscere la validità “obiettiva” di questa massima, cioè il suo valore essenzialmente politico (universale nella sfera della politica, nell'arte di conservare e accrescere la potenza dello Stato). Ogni governo non può prescindere dall'ipotesi di una crisi economica e specialmente non può prescindere dall'ipotesi di essere costretto a fare una guerra, cioè a dover superare la massima crisi cui può essere sottoposta una compagine statale e sociale. E poiché ogni crisi significa un arretramento del tenore di vita popolare, è evidente che occorre la preesistenza di una zona di arretramento sufficiente perché la resistenza “biologica”, e quindi psicologica, del popolo non crolli al primo urto della nuova realtà. Il grado di potenza reale di uno Stato deve essere pertanto misurato anche alla stregua di questo elemento, che è poi coordinato agli altri elementi di giudizio sulla solidità strutturale di un paese. Se infatti le classi dominanti di una nazione non sono riuscite a superare la fase economica-corporativa che le porta a sfruttare le masse popolari fino all'estremo consentito dalle condizioni di forza, cioè a ridurle solo alla vegetatività biologica, è evidente che non si può parlare di potenza dello Stato, ma solo di mascheratura di potenza. Mi pare sia importante in questo esame di un punto essenziale di arte politica evitare sistematicamente ogni accenno extrapolitico (in senso tecnico, cioè fuori della sfera tecnicamente politica), cioè umanitario, o di una determinata ideologia politica (non perché l”umanitarismo” non sia anch'esso una politica ecc.). (Tratto da: Passato presente – Quaderni del carcere – A. Gramsci)


Il modello di vita raggiunto nelle aree industriali più avanzate non è un modello conveniente di sviluppo se l'intento è di arrivare alla pacificazione. Di fronte a ciò che tale tenore ha fatto dell'Uomo e della Natura, ci si deve nuovamente chiedere se ciò valesse i sacrifici e le vittime fatti in sua difesa. Questa domanda non appare più irresponsabile dacchè la “società opulenta” è diventata una società mobilitata in permanenza contro il rischio dell'annichilazione, dacchè la vendita dei suoi beni è stata accompagnata dall'istupidimento, dal perpetuarsi della fatica, e dalla promozione della frustrazione. Date queste circostanze, la liberazione dalla società opulenta non significa tornare ad una salutare e vigorosa povertà, alla pulizia morale, e alla semplicità. Al contrario, l'eliminazione dello spreco redditizio aumenterebbe la ricchezza sociale disponibile per essere distribuita, e la fine della mobilitazione permanente ridurrebbe il bisogno sociale di negare le soddisfazioni che sono proprie dell'individuo – negazione che è ora compensata dal culto dell'efficienza fisica della forza, e della uniformità. Oggi, nel prosperoso stato della guerra e del benessere, le qualità umane tipiche di un'esistenza pacifica sembrano asociali e antipatriottiche; intendo qualità come il rifiuto di ogni durezza, cameratismo e brutalità; la disobbedienza alla tirannia della maggioranza; il far professione di paura e di debolezza (la reazione più razionale a questa società!); l'impegno in azioni, di solito deboli e poste in ridicolo, di protesta e di rifiuto. Anche queste espressioni di umanità verranno guastate da qualche necessario compromesso – dal bisogno di coprirsi, d'essere capaci di imbrogliare gli imbroglioni, e di vivere e pensare a dispetti di questi. Nella società totalitaria gli atteggiamenti umani tendono ad assumere carattere d'evasione, a seguire il consiglio di Samuel Beckett: “Non aspettare ti sia data la caccia per nasconderti……” Il crimine è quello di una società in cui la popolazione che cresce peggiora la lotta per l'esistenza dinanzi alla possibilità di alleviarla. La brama di un maggiore “spazio vitale” non si manifesta nell'aggressività internazionale ma anche dentro la nazione. Qui l'espansione ha invaso, nelle innumerevoli forme del lavoro di squadra, della vita in comunità,, e del divertimento, lo spazio interiore della sfera privata ed ha praticamente eliminato la possibilità di quell'isolamento in cui l'individuo, lasciato solo a se stesso, può pensare e domandare e trovare. Questo aspetto della sfera privata – la sola condizione che, quando i bisogni vitali siano soddisfatti, può dare significato alla libertà e all'indipendenza di pensiero – è diventata da lungo tempo la più dispendiosa delle merci, che può permettersi solo l'individuo ricchissimo (il quale non l'usa). Per questo riguardo, del resto, la “cultura” rivela le sue origini e limitazioni feudali. Essa può diventare democratica solo a mezzo dell'abolizione della democrazia di massa, ovvero solo se la società sarà riuscita a ristabilire le prerogative della sfera privata consentendole a tutti e proteggendole a tutti. (Tratto da: L'uomo a una dimensione – Herbert Marcuse, 1968)
Per qual fenomeno un uomo ha potuto diventare padrone di un altro uomo, e per quale specie di magia incomprensibile ha potuto diventare padrone di numerosi altri uomini? Son stati scritti molti volumi sull'argomento, ma noi daremo la preferenza a questa favola indiana, sia perché essa è breve, sia perché le favole hanno da tempo la sapienza umana. “Adimo, padre di tutti gli indiani, ebbe due figli e due figlie dalla sua donna Procriti. Il maggiore era un gigante pieno di forza, il minore piccolo e gobbo, le due ragazze eran belle. Appena il gigante sentì la sua forza, andò a letto con le due sorelle e si fece servire dal piccolo gobbo. Delle due sorelle, l'una fu la sua cuoca, l'altra la giardiniera. Quando il gigante voleva dormire, cominciava dall'incatenare a un albero il suo fratello gobbo, e quando questi voleva scappare, lo riagguantava in quattro salti egli dava venti nerbate. Così il gobbo divenne sottomesso, e il miglior suddito del mondo. Il gigante, contento di vedergli compiere tutti i suoi doveri di suddito, gli permise di andare a letto con una delle due sorelle di cui era stufo. I figli che vennero da quel matrimonio non furono proprio gobbi, ma gracili e deboli; e furono allevati nel timore di Dio e del gigante. Ebbero un'ottima educazione: impararono che il loro zio era un gigante per diritto divino, che egli poteva fare di tutta la famiglia quel che gli pareva e piaceva; che se c'era qualche nipote o pronipote carina, era indubbiamente riservata a lui, e nessuno avrebbe potuto averla se non quand'egli ne aveva abbastanza. Ma quando il gigante morì, suo figlio, che non era certo né così forte né così grande come lui, credette ugualmente di essere come suo padre, gigante per diritto divino. Egli pretese di far lavorare per lui tutti gli uomini e di andare a letto con tutte le ragazze. La famiglia si collegò contro di lui, lo uccise, e si costituì in repubblica.” I Siamesi per contro pretendono che la famiglia cominciò dall'essere repubblicana, e il gigante venne solo dopo un gran numero d'anni e di discordie; ma tutti gli autori dell'India e del Siam concordano nell'opinione che gli uomini vissero un'infinità di secoli prima di messere capaci di fare delle leggi. E lo provano con un argomento decisivo: che ancor oggi, che tutto il mondo si stima intelligentissimo, non si è trovato il mezzo di fare una ventina di leggi passibili. Ed è ancora una questione insolubile, nell'India, se le repubbliche sono state stabilite prima o dopo le monarchie; se la confusione sembrò agli uomini più orribile del dispotismo. Ignoro come andaron le cose nell'ordine dei tempi, ma nell'ordine naturale, dobbiamo pensare che, nascendo gli uomini tutti in stato di eguaglianza, la violenza e l'astuzia abbiano creato i primi padroni, le leggi i più recenti. (VOLTAIRE)

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