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Molfetta. “Vampiri, jettatori e tarantate” fra il fascino del mistero e le ragioni della scienza
30 maggio 2010

MOLFETTA - La scienza, confondendosi con le tradizioni, ci trascina nelle costruzioni velate che connettono figure e segni in una trama dai contorni indefiniti. Si perde il sogno nelle narrazioni, lasciandosi cullare sospeso fra la l’immaginazione e la realtà, che assume nuovi contorni, riempiendosi di vitalità. Ed è in questa linea di margine che viaggia l’ironia, rendendo “reale” la realtà ma senza appiattirla nelle forme assolute della serietà. E’ la stessa ironia che trasportava le parole del prof. Francesco Paolo de Ceglia (a sinistra, nella foto di Cosimo Marino, con Pantaleo Annese), giovedì durante la conferenza nella sala Turtur, sollevandole dal tono austero del disvelamento forzato, e si appassionava ai contorni umani dei costumi, delle giustificazioni rassicuranti, che riempiono di senso l’incertezza di orizzonti mai penetrati, sempre coinvolti allo stesso tempo in terra e cielo, umano e divino, fede e ragione.
La verità, allora, travalica i confini di ogni definizione, perdendosi nelle forme ambigue che riempiono di sicurezza i vuoti lasciati aperti dai tratti indefiniti dell’altro, rendendolo un po’ più familiare. Così, Giuseppe Davanzati, arcivescovo di Trani vissuto fra il 1665 e il 1775, decise di illuminare con la ragione i tratti oscuri di quegli esseri inquietanti che funestavano le placide serate europee, infestando gli animi mansueti a colpi di voci penetranti come buchi neri pronti a risucchiare la realtà in nuove allarmanti atmosfere. Insieme a lui, Girolamo Cardano tentò di spiegare scientificamente le apparizioni di vampiri, ponendole come immagini prodotte da esalazioni e effluvi di non ben definite particelle. I vampiri, allora, ben poco interessati a spaventare e uccidere i cristiani su ordine del demonio, erano frutto di una suggestione collettiva.
Anche l’illuminista Davanzati, dunque, bollò tali credenze come superstiziose, pur di sottrarle alle libere fantasie vaganti fra gli spiragli non ancora colmati dai lumi della ragione. La sua, però, restava una spiegazione filosofica e poco scientifica. La teologia si intrecciava alla politica, aprendo nuove dispute che si infuocavano all’idea di poter darla vinta al non detto, all’irrazionale: anche ammettendo che i vampiri fossero non morti, si sarebbe posta in discussione la dottrina cattolica del regno dell’aldilà.
Ma, entrando nel merito storico delle sferzate occulte che attanagliavano le ragioni dell’epoca, forse il fenomeno è da attribuire a qualche epidemia che ha diffuso fra la gente lo spettro di un nemico non definito che mieteva vittime fra la gente. Inoltre, in tutta Europa circolavano storie di tumulazioni premature. Per Jacques-Jean Bruhier d’Ablaincourt (1685-1756), i vampiri erano proprio questi sfortunati individui sepolti per sbaglio prematuramente, che si aggiravano disperati e malridotti in cerca di aiuto. Recentemente, invece, gli storici hanno identificato l’epidemia di vampirismo che colpì l’Europa con l’ protoporfiria eritropoitica, una malattia che, aggredendo i globuli rossi, rende chi ne è affetto ostile all’esposizione solare e forse provoca il desiderio di bere sangue per trarre nuova forza.
Ma i contorni tornano a farsi sottili, le spiegazioni viaggiano sulle falde del mistero e persino il coraggio della ragione riesce a mettere in dubbio la saldezza della verità.
Così, a proposito della iettatura, il grande filosofo francese Denis Diderot (1713-84), si lasciava coinvolgere particolarmente da questo pericoloso maleficio, dal “fascino”. Per lui, era l’occhio l’organo di questo maleficio, che penetrava direttamente nel cervello.
Nel 1788, Giovanni Leonardo Marugi tentò di costituire una “scienza ragionata della jettatura”, riconducendola a determinazioni psicologiche esercitate dall’aspetto. Ma i napoletani non si sono ancora lasciati ingannare, soprattutto dopo la beffa di Giovanni de Jorio, illustre studioso di Pompei ed Ercolano. Bastava nominare il suo nome per pagarla cara. Il re Ferdinando IV di Borbone fece di tutto per evitare la sua visita, il giorno in cui non poté più rinviarla, fu l’ultimo della sua vita.
Un substrato di mistero sembra sostenere ogni momento della nostra storia. Essenziale è addomesticarlo, tenerlo a bada, farlo diventare una parte positiva della nostra esistenza.
Un tempo, gli aracnidi di Puglia mietevano un gran numero di vittime fra le donne. Il ragno, passava sempre inosservato. Il rimedio era uno solo: chiamare una delle orchestrine che animava le vie del Salento, che intonava un pezzo corrispondente al colore del panno che ricordava alla malcapitata l’aspetto del ragno colpevole.
C’è sempre un filo sottile, teso fra il reale e l’immaginario, a guidare le paure, conducendole per i ponti rassicuranti che ci collegano all’infinito. Dove il divino torna sulla terra per sciogliere i vincoli stringenti delle gerarchie, della fame, dell’instabilità. Così, Pantaleo Annese ci ricorda la tradizione napoletana delle “guarattelle”, in cui Pulcinella porta sulla scena le contraddizioni umane, sfuggendo ad ogni definizione, a qualsiasi dattame o oppressione. Le guarattelle sono del popolo, che resiste alle voglie sdegnose e ai poteri temporanei dei più forti, per vivere in ogni momento il sentimento che lo collega all’infinito, che lo apre al mondo senza fargli perdere la Libertà. E’ così che si chiama la farfalla che batte le ali nel cuore di Pulcinella, il quale è riuscito a sottrarla all’altezza sontuosa del divino e ai desideri materiali del potere, per farla vivere in ogni stimolo, in ogni passione autentica. I sentimenti di un uomo libero non moriranno mai. E’ per questo che Pulcinella è immortale.
 

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Autore: Giacomo Pisani
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