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Marienne
15 maggio 2010

Si chiamava Maria, era forse la più bella delle sorelle. Famiglia numerosa, la sua; laboriosissimi i genitori, profondamente e sinceramente credenti. Nei primi decenni del 1900 la miseria era evidente e diffusa nel profondo Veneto. Ma la coppia di Giuseppina e Domenico, pur procreando figli - come Dio li mandava, essi asserivano - affrontavano le difficoltà con abnegazione e fiducia massima nella Provvidenza. In primavera e in estate come in autunno si dedicavano alla cura dei campi. In particolare la madre coltivava ad orto un pezzo di terra che si estendeva dietro la casa-fattoria, di modeste dimensioni: che meraviglia di peperoni, melanzane e pomodori riusciva a produrre .... come profumato il sedano ed il prezzemolo; e quante zucchine e bietole! Che colori, che abbondanza per la famiglia e quale soddisfazione per la signora Giuseppina. In inverno la neve invece impediva ogni attività agricola. Allora Domenico si dedicava ad un modesto commercio ambulante. Caricava sul portabagagli della bicicletta pezzi di stoffe ben coperte da un telo impermeabile e le andava vendendo nei paesi limitrofi. La figliolanza numerosa, sedici figli, terminate le scuole primarie, partecipavano anch’essi, sia maschi che femmine, al lavoro nei campi. Tuttavia coloro che volevano continuare gli studi non venivano contrastati, anche se ciò imponeva a tutta la famiglia numerosi sacrifici. La signora Giuseppina era conosciuta in paese per la sua generosità, derivante oltre che dalla sua indole generosa soprattutto dal saper vivere quotidianamente il Cristianesimo che è amore senza condizioni. Terminato il secondo conflitto mondiale, tanti erano i miserabili in giro; essi stendevano la mano per chiedere un tozzo di pane raffermo. Ma la signora Giuseppina, in paese detta Ina, non le briciole d’avanzo dava ai mendicanti, che sotto i bombardamenti avevano perso famigliari e casa, ma ciò che era sulla tavola imbandita, polenta calda o altro cibo... magari un minestrone caldo di verdure raccolte nel suo orto. I mendicanti si avvicinavano alla casa di Ina, specialmente nel giorno del Venerdì. Ormai si era sparsa la “voce”; sia il signor Domenico, sia i figli maschi, a turno, andavano a pescare nel fiume Brenta o nei canali d’irrigazione costruiti durante il ventennio. Tanti, tanti pesci che sfamavano la numerosa famiglia e i mendicanti che accettavano benedicenti quel cibo genuino e ben cotto. Questa esistenza era affrontata dalla famiglia con gioiosa partecipazione, tra lavoro senza limite di ore e rinuncia anche all’idea del superfluo che a volte pareva allettante, specie alle giovani e belle figlie. Ma era mal sopportata da Maria. Ella aveva una carnagione bianca e vellutata, occhi neri, neri e fluenti i capelli. Era alta, slanciata, con un giro- vita invidiabile e gambe affusolate. Vedeva la sua splendida giovinezza come sperperata in quella casa contadina. Una brava ragazza tutta scuola e doveri familiari che se ne stava al suo posto mentre alcuni giovani si rifiutavano di stare al gioco di tradizioni ormai formali e seriose, respingevano con spavalderia i valori della provincia. Maria infatti provava invidia per chi aveva il coraggio di andare controcorrente, l’audacia di rinunciare alla sicurezza di una casa, di una famiglia che, sì, proteggeva ma soffocava anche. Ella si convinceva sempre più che la onesta e ottusa vita di paese è come un potente allucinogeno avente come finalità unica, per la donna, il matrimonio, matrimonio spesso accettato come la “sistemazione” di un oggetto: un paio di braccia per le faccende domestiche e un paio di fianchi per i doveri muliebri, generare figli compreso. Avvenente e spavalda, Maria pativa il rigore morale e religioso di quell’ambiente come sottomissione al bigottismo e... un giorno - aveva compiuto la maggiore età, 21 anni, a quei tempi - decise d’impulso di accettare la corte di un uomo il quale, dopo averla usata come un lavandino - dicevano le malelingue del paese - sparì dalla circolazione. La madre intuì subito che quella figlia aveva abbandonato la retta via, che ella covava un tormento che l’alienava fisicamente e sentimentalmente dal parentado. Maria disperata e sconvolta andò via di casa, lasciando nel dolore e nella costernazione tutti i familiari: genitori, fratelli, sorelle. Via, fuggiva lontano da un modo di vivere che ormai l’asfissiava con i suoi giudizi e pregiudizi; la infastidiva con i suoi divieti, la condannava. Via... in cerca di una libertà vagamente concepita, incoscientemente ricercata come un diritto della sua bellezza e della sua giovinezza. Dal Nord Italia era facile raggiungere la Svizzera. Come vivesse, come si procurasse il necessario per vivere non sappiamo. Passarono mesi e mesi e, ramingando con questo o quel “fidanzato”, Maria giunse a Parigi. Si reputò fortunata quando finalmente trovò un lavoro come cantante e ballerina e poté godere di una certa indipendenza economica. Non aveva mai frequentato corsi di ballo; “ballare” equivaleva ad un ondeggiare sinuoso, in abiti succinti, al suono della musica della canzone che interpretava. Così intratteneva i clienti di una brasserie che, se non era un raffinato locale, neanche era da ritenersi di infimo ordine. Cantava. Sì, aveva una bella voce pastosa e profonda e cantava famose canzoni italiane. Quindi, intelligente com’era e volenterosa di apprendere, imparò, in tempi relativamente brevi, a pronunciare bene la lingua francese ed allora si dilettava - e dilettava - nell’esibirsi a interpretare con trasporto e autentica passionalità quei testi che la cultura dell’Esistenzialismo, tanto di moda nella Parigi del dopoguerra, aveva elaborato e che si stava diffondendo in tutta Europa. Edith Piaf e Julette Greco ne erano le muse. Era da poco terminato un mostruoso conflitto mondiale causato dalle mire imperialistiche del nazifascismo, dalle umiliantissime condizioni di resa imposte alla Germania dalle potenze vincitrici alla fine della prima guerra mondiale (1914 - 1918). E l’imperialismo inglese, francese, belga e spagnolo,per difendere le loro colonie dislocate tra il Canada, l’India, l’Africa ed il Centro e Sud America non aveva dato esempio di una politica diversa. Eppure il Presidente degli USA, Wilson, nel 1919, aveva enunciato la necessità, per mantenere la pace nel mondo, di rinunciare gradatamente al colonialismo. Né la Società delle azioni, non munita di un esercito internazionale, riuscì ad essere un freno concreto agli appetiti delle materie prime dislocate nei paesi del Terzo Mondo e pretese con la forza bestiale della guerra dalle potenze europee. Maria a Parigi era ormai la cantante Marienne: interpretava quelle canzoni i cui testi indugiavano sulla tristezza di vite perdute, sulla malinconica contingenza di amori brevi e crudeli, sulla resa della credibilità di “ideali” che avevano portato al massacro immane della seconda guerra mondiale. Dall’invasione della Polonia da parte delle truppe naziste nel 1939, al 1945, nell’estate del quale anno gli USA imposero la resa al Giappone lanciando le prime due bombe atomiche della Storia su Iroshima e Nagasaki, l’Europa visse anni di sfacelo morale, fisico, urbanistico. Dopo sei anni di una guerra infame - da sei milioni di ebrei uccisi nei lager nazisti all’invasione militare, per spezzare le reni alla Grecia che nessun misfatto aveva commesso contro l’Italia fascista, all’assedio di Stalingrado da parte delle truppe naziste (due anni...) ... gli animi dei sopravvissuti erano stremati. Quella seconda guerra mondiale non aveva bruciato e distrutto solo strutture architettoniche (si pensi alla forse non necessaria distruzione della splendida città tedesca di Dresda da parte dei bombardieri americani...) e migliaia di vite umane, ma aveva anche abbattuto ogni credito in astratte quanto pericolose demagogie. Marienne visse diversi amori. Era un’altra ormai. Ogni pur minimo ricordo della famiglia si affacciasse nella sua mente, era da lei rigettato nel pozzo senza fondo dell’oblio. Il padre l’aveva rinnegata. La vergogna che aveva colpito la onesta e laboriosa etica del focolare - fatica e onore - poteva essere soffocata solo con il ritenere non più appartenente allo stesso ceppo familiare colei che si era dimostrata così indegna. In seguito ad un tragico amore nel quale Marienne aveva creduto di potersi abbandonare con fiducia perché ricambiato con uguale intensità (era l’affascinante pianista che l’accompagnava al piano nelle sue esibizioni canore; ma morì in un banale incidente stradale) depressa, disperata, disillusa... decise di lasciare Parigi e rientrare in Italia. Era talmente abbattuta e distrutta che osò ritornare nel suo paese, bussando alla porta della casa natia. Fu accolta. In particolare dalla madre, il cui amore arginò in parte l’ira del genitore. Ma Maria - non più l’affascinante cantante Marienne - sentì che la sua presenza, tollerata, era un oltraggio implicito all’onore della famiglia ed oggetto di non tante implicite derisioni da parte del paese. Dopo qualche settimana lasciò, questa volta definitivamente l’una e l’altro. Sostò per qualche tempo a Milano in cerca di lavoro, quindi passò a Torino dove incontrò un uomo particolare. Costui esercitava un mestiere ben remunerato: installava i bruciatori nei grandi condomini, i termosifoni dei quali funzionavano a dovere grazie alla sua perizia tecnica. Ma in quanto al carattere egli era irruento, maschilista al massimo, dominatore. La bella Maria lo colpì a tal punto che le propose di sposarlo, intendendo il matrimonio come la legalizzazione del suo dominio fisico e psicologico su quella donna: ella diventava davanti all’altare e per le leggi dello Stato il suo oggetto più prezioso da sfoggiare con l’orgoglio del conquistatore. Maria ne era tuttavia affascinata. A quei tempi nessuna ideologia del femminismo o di pari opportunità si era affacciata sulla scena della società. Erano fisime o velleità di scrittrici intellettuali poco conosciute. Giulio non aveva un viso proprio gradevole; un naso particolarmente grosso era come l’indicatore di una psiche grossolana. Maria era presa dalla sua corporatura massiccia, dall’altezza, dal suo modo di incedere e di parlare; era proprio un maschio che la faceva sentire al sicuro, protetta , dopo anni trascorsi tra relazioni effimere e delusioni. Dai primi dialoghi che s’intercalarono fra Giulio e Maria si evinceva la fede politica del consorte. Egli era un fascista sfegatato. “La democrazia - asseriva con evidente disprezzo - è un colabrodo; serve solo agli smidollati per pretendere diritti trascurando i doveri. Hitler e Mussolini sono stati traditi... Gli USA fanno il doppio gioco: condannano il colonialismo delle nazioni europee, ma in effetti si sostituiscono ad esse con l’etichetta della libertà e dei diritti democratici dei popoli. Ugualmente l’URSS, con l’etichetta della giustizia sociale, domina e schiaccia le nazioni sottomesse durante l’ultimo anno della seconda guerra mondiale, imponendo la dittatura comunista, usando i gulag della Siberia - per punire o annientare il sia pur minimo dissenso dei comuni esseri o di menti pensanti, quando non venivano torturati o uccisi dal KGB. Ipocriti!..” gridava eccitato come un ossesso. La moglie Maria lo ascoltava a volte convinta, a volte allibita. “Ma - osava controbattere, raramente - la libertà di parola, di pensiero, di religione non sono una conquista civica?” Giulio la interrompeva: “Cretina, d o n n i c c i o - la... le masse popolari hanno bisogno di una mano forte per filare diritte; devono obbedire ad un disegno superiore che porti la nazione verso fulgidi destini! Il popolo va irregimentato, altrimenti è anarchia, comunismo, ingiustizia sociale!..” e, pronunciando queste parole come un proclama, alzava sempre più la voce, come tuonando, con gli occhi fuori dalle orbite. Certo era Mussolini il suo esempio, il suo modello ideale di guida che conduce la patria a conquiste di vittorie e di grandezze! I bambini, un maschietto ed una femminuccia, ascoltavano in religioso silenzio, allibiti ed impauriti. Vedendoli quasi tremare, Giulio pensava che così sarebbero stati educati all’ordine ed all’obbedienza. Evidentemente, a corto di studi di Filosofia e Diritto, confondeva il verbo educare con il verbo addomesticare, non conoscendo la differenza fra suddito e cittadino. Non era raro che a sera o non rientrasse in famiglia (per riunioni di partito) o rincasasse a notte inoltrata. I segni delle mazzate ricevute erano evidenti. “Ma sono più quelle che hanno subito da me, quei porci rossi! - gridava ubriaco di azionismo, esaltato da quelle che per lui erano “egregie imprese”, mentre Maria disinfettava le ferite e piangeva perché, nonostante tutto era suo marito, il padre dei suoi figli. “Il vero italiano - e Giulio lo acclarava allargando le gambe e assicurandosi con la mano destra che i suoi attributi maschili fossero ben saldi e presenti - è fascista!”. I bimbi crebbero: ma dai primi risultati non parevano proprio amanti dell’ordine e dell’obbedienza. La ragazza, Renata, bellissima certo, ma troppo vistosamente truccata e vestita (quasi vestita, tra minigonna, proprio mini, e scollature mozzafiato...) dava ai conoscenti, nonché ai passanti per strada, un messaggio di disponibilità. Si sposò, ebbe un figlio; si separò dal marito... alfine trovò un suo lavoro. Gestiva un Beautiful Center: massaggi, lampade per abbronzare, trucchi et cetera e, in quel “cetera” le solite malelingue insinuavano il dubbio di liberi e mercenari amori. Si decise di accettare la convivenza con un militare. Ormai nel terzo millennio il matrimonio legale, sia in chiesa che in municipapio, per certe coppie è una tradizione obsoleta, ridicola, inutile, che al massimo farebbe guadagnare bei soldini agli avvocati, in caso di separazione. Il fratello Mario che si occupava, come tecnico, di installazione e manutenzione dei sistemi elettrici negli ospedali, era un mascalzone. Spesso e volentieri sottraeva materiali elettrici di proprietà degli ospedali e se ne serviva per lavori in case private o ditte varie, facendosi ben remunerare sia il materiale che il lavoro. Respirava a pieni polmoni quell’atmosfera di capitalismo predatorio che dagli anni ‘80 in poi si viveva da parte dei più “dritti”, non solo in Italia, tra il tangentismo eletto a sistema contrattuale e governi deboli e contraddittori. I due fi gli del fascistone certo non poterono - così occupati a vivere un’intensa vita sessuale e aff aristica - occuparsi della madre Maria che tuttavia risiedeva nella casa di Renata e si consolava con il suo dolcissimo ruolo di nonna, dopo la morte del consorte. Probabilmente furono gli anni più sereni. Trascorreva volentieri e con profonda tenerezza i rapporti con i due nipotini; con essi scambiava carezze e baci, insegnava loro le prime espressioni, li aiutava a muovere i primi passi e ripensava con nostalgia ed orgoglio al consorte che l’aveva resa madre e quindi nonna. “Nonna Maria - chiese un giorno il nipotino più grande, 4 anni - il nonno mio dove si trova?”. “Si trova in cielo, guarda lassù... oltre le nuvole... Noi non lo vediamo, ma egli sì, ci vede e ci vuole bene e ci protegge!”. “Ma lo voglio vedere anch’io” rispose il piccolo Dario. Nonna Maria sorrideva stringendolo al seno e pensava come fosse meglio rispondere a quell’esigenza aff ettiva del nipotino. Quindi si alzava dalla sedia-sdraio sulla quale giaceva in giardino, con il nipotino stretto al seno e, portandoselo insieme, manina nella sua mano, rientrava in casa e andava a prendere l’album delle foto di famiglia. Quante foto! “Vedi qui nonno era giovane” “Che bella che sei nonna!” “Vedi in questa foto nonno e nonna, giovani e appena sposati, passeggiano per le vie di Torino”. “Era forte nonno?” - domandava Dario, accarezzando con la manina certe foto nella quali nonno Giulio, in costume da bagno, si rivelava in tutta la sua maschia fi sicità. “Certo che era forte il nonno; era forte e buono. Stanotte l’ho sognato e mi ha detto di darti tanti bacetti, ma tanti!”. Dario quindi manifestava il desiderio di sognare, di essere abbracciato e baciato dal nonno. Allora ella lo assicurava con voce suadente e aff ettuosa: “Ma certo, lo sognerai anche tu...”. Dario rasserenato, si faceva mettere a letto e, con la manina nella mano di nonna Maria, si addormentava felice. Maria, la bella Maria, la ribelle, domata dal forzuto e nazistuccio consorte ma soprattutto dall’amore per i fi gli e ancor più per i nipotini, alfi ne si ammalò del morbo di Alzheimer; visse pertanto nell’inconsapevolezza che comporta questa malattia, gli ultimi sei, sette anni della sua esistenza. Morì a 85 anni. Nel marzo del 2010 alle sorelle ed ai fratelli residenti in varie parti del mondo, giunse la notizia della sua morte. Un parente sacerdote celebrò la Messa di requiem, chiedendo perdono a nome di tutta la sua famiglia che l’aveva giudicata e respinta, perché nessuno può pretendere di lanciare la prima e neanche la seconda pietra. Si chiamava Maria, era forse la più bella delle sorelle. P.S. Vicende e pr

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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