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La vera primavera di Angelica Coop
15 febbraio 2018

Vedi? Nei toni azzurri muore il giorno… / di luce giunge un debole chiarore… / è questa l’ora che non ha ritorno: / l’ora del sogno e del più grande amore. Sono versi di Angelica Coop, scrittrice nata a Napoli nel 1897, figlia del compositore Ernesto Coop, allievo di Liszt. Autrice della raccolta Versi lontani, pubblicata nel 1931 dall’editore Gaspare Casella, la poetessa, nel culturalmente fecondo e vitale ambiente partenopeo, ha veduto alcune proprie composizioni trovare spazio tra le pagine dei quotidiani di Napoli, come il “Mattino” e il “Roma”, suscitando gli apprezzamenti anche di figure come Ada Negri e Sibilla Aleramo. Poi il matrimonio con Pio Grassi e la scelta di dedicarsi alla famiglia, lasciando che i propri versi restassero perlopiù celati nell’intimità domestica. A 47 anni dalla morte di Angelica Coop, avvenuta nel 1971, la figlia Maria Luisa Grassi e la sua famiglia hanno deciso di far conoscere al pubblico questa significativa autrice, pubblicando un florilegio delle sue liriche dal titolo La vera primavera. L’opera ha veduto la luce per i tipi della Wip, casa editrice barese, diretta da Stefano Ruocco, nell’ambito della collana “Muse”; sarà presentata a Molfetta il 17 marzo, alle 18, nella Sala “Beniamino Finocchiaro”, in una serata organizzata dall’Aneb. Preceduta da una commossa e preziosa prefazione di Maria Luisa Grassi, la raccolta è suddivisa in cinque sezioni (“Amore”, “Natura”, “Arte”, “Emozioni, pensieri…”, “Moralia”), in cui i componimenti sono incastonati sulla scorta di affinità tematiche. Appare evidente sin da una prima analisi come ci si trovi dinanzi a un’espressione poetica interessante e di notevole valore, sotto il profilo tecnico e per intensità lirica. Numerose sono le suggestioni della tradizione letteraria, alcune (Leopardi, Pascoli, Ungaretti) segnalate nel saggio introduttivo, cui si potrebbero aggiungere ancora altri esempi, a riprova della solida formazione culturale dell’autrice. Sono ravvisabili influenze dannunziane, nell’estrema attenzione ai valori musicali (cui in alcuni casi non è estranea nemmeno la lezione del Chiabrera), ma anche nella presenza di attimi panici, diversamente risolti dalla Coop, e nel ricorrere di alcune iuncturae (si pensi a del maglio le faville). Notevole anche la memoria petrarchesca, soprattutto nell’icona del vecchierel canuto e bianco (RVF 16), più volte richiamata; quella dantesca, viva nell’uso di verbi preziosi come ingigliarsi o il frequente incielarsi, che ricorre quasi sempre abbinato all’immagine della vela, metafora del cammino esistenziale. Molti altri esempi (non è assente neanche la memoria del melodramma) si potrebbero addurre, ma sorvoleremo per ragioni di brevità. Segnaliamo tra le forme metriche, anche l’uso di distici di decasillabi, dalla melodia a tratti anapestica. Applicando ai versi di Angelica Coop le metodiche di indagine di Charles Mauron, ci sembra che la sua poesia si collochi fortemente nel segno di un’opposizione, quella tra l’“ombra”, presenza ossessiva nella raccolta, e il mito della “chiarità”, cui si può riconnettere anche la bella icona dell’“ azzurrità del giorno”. Pervasiva risulta la dimensione dell’ombra, che, addirittura, in una personificazione da poema allegorico, trova espressione nell’allucinata figura del Rimorso, cavaliere dal sogghigno “mefistofelico” (“Chi vuoi? chi sei? Domando”. “Sono – risponde – l’Ombra”). Essa appare il punto d’arrivo dell’esistenza umana, come enunciano quelli che sono forse i più bei versi dell’intera silloge: “Si entra nell’ombra, e si ritorna al nulla, / questo vi è al di là d’ogni morire: / esser confusi con la terra brulla, / dormire e non sapere di dormire!”. Al regno dell’ombra e dello scoramento appartiene tutta una rete di immagini e vocaboli. La Morte è “Signora gelida” come gelido è l’inverno ontologico e gelido è l’occhio del Tempo; onnipresente è l’aggettivo “greve”, che connota il “cammino umano”, il fango, il “fiato della Sventura”, la Tristezza, per poi rivelare il proprio più recondito significato. Greve è infatti la condanna che accomuna gli esseri umani e che conosce un’efficace espressione anche nella rappresentazione della Vita dalla sguardo meduseo (Medusa, le Parche, il concetto di pietrificazione e dell’“impietrare” sono presenze vive nell’opera). Anche elementi di apparente positività, come il “ramo fiorito”, le rose, le viole, la farfalla non di rado assurgono a emblemi di caducità. Bello il Leitmotiv della foglia che danza nel vento, anche questa di classica e biblica memoria, a rappresentare la fragilità dell’umano esistere, turbato da presenze minacciose quali il gorgo, il turbine, l’onda. Tali elementi non devono tuttavia indurre a considerare la poesia della Coop come desolata e priva di raggi di luce. Al contrario, un tratto vivificante è rappresentato dalla costante ricerca del contatto con la Natura e dalla sua incantata contemplazione, che determina il rincorrersi di graziosi cromatismi: penso, ad esempio, al “verde che di fiori s’ingioiella”. La luce, con la sua chiarità, l’azzurro (nota ricorrente proprio come l’Ombra) incarnano i poli esaltanti di un’esistenza che vale la pena vivere. Sono i miti che agiscono ben più della fiducia nel trascendente (ora negato, ora speranzosamente desiderato) e possono essere accostati all’immaginario primaverile, costantemente contrapposto al tetro giardino della sorte dei mortali. Certo, il più delle volte i sogni, la fioritura, le “voci lontane” e amate appartengono al passato, alla sfera del ricordo, ma all’uomo di certo almeno una forma di immortalità è concessa. Nel contemplare la figlia, che ha lo stesso suo “cielo azzurro fra le oscure ciglia”, il cuore di Angelica s’“ingemma”: “Ardi nella rinascita divina; / l’alba ha sommerso la tua notte nera… / Sorridi nella luce mattutina: / è questa la tua vera primavera!”. © Riproduzione riservata

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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