La storia di Karim: dal Mali a Molfetta con la gratitudine nel cuore
Avete mai chiesto “come ti chiami?” al ragazzo dalla pelle scura che ogni giorno vi aiuta con gli ingombranti sacchetti della spesa; vi siete mai domandati “da quale Paese sarà iniziato il suo viaggio?”, perché sì, quasi sicuramente sarà africano, ma l’Africa è grande, occupa lo spazio di un intero Continente; avete mai immaginato quale nostalgia nascondano gli occhi corvini del giovane indiano che lavora nei campi fino al tramonto; avete mai provato a immedesimarvi nella “vertigine” culturale che vive ogni giorno quella donna col capo coperto che accompagna sua figlia a scuola? Vi siete mai posti queste domande? Avete, solo per un attimo, provato a sospendere i vostri pregiudizi, a mettere in dubbio il vostro “esatto” e rassicurante sistema di pensiero, a guardare oltre? Io l’ho fatto quando, tra gli scaffali del mio supermercato biologico di fiducia, ho incontrato Karim, un ragazzo di 27 anni che viene da un altro continente, dall’Africa, dal Mali, da Moribabougou. Karim lavora qui, sistema i prodotti sui ripiani, i suoi movimenti sono discreti e silenziosi, tocca ogni cosa con cura, non si avvicina a te ma se hai bisogno di qualcosa ti sorride ed è pronto ad aiutarti. Karim quando sei arrivato in Italia? “Sono arrivato nel 2015, a Taranto, dopo un lungo viaggio di due giorni e due notti attraverso il Mediterraneo”, la lingua madre di Karim è il bambara, uno degli idiomi più diffusi dell’Africa occidentale ma conosce bene anche il francese, l’inglese e il suo timido italiano si rivela facilmente comprensibile, “dopo Taranto, c’è stato il Centro di Accoglienza a Bari, la comunità Oasi 2 a Bisceglie e lo Sprar – Centro di seconda accoglienza – di Molfetta”. Come è stato il viaggio in mare? “Eravamo circa un centinaio di persone ammassate su una piccola imbarcazione, su un gommone, guidato da uno di noi, non un trafficante ma un migrante come noi, che aveva pagato caro quel viaggio, che non conosceva la rotta da seguire ma si orientava attraverso il GPS. La gente sui gommoni è impaurita, si fa prendere dal panico, possono scoppiare delle risse e qualcuno cade in mare, non tutti riescono a sopravvivere e ad arrivare a destinazione. E’ un viaggio molto pericoloso e c’è un’idea che ti accompagna durante tutta la traversata: “o arrivi in Italia o muori”. Il tono di Karim è freddo, sembra non avere colore, come se il terrore provato durante quei momenti avesse paralizzato ogni emozione futura. Perché sei andato via dal Mali? “Il mio cammino è iniziato, in realtà, quando avevo 18 anni, nel 2009, quando sono andato via dal Mali a causa dell’instabilità politica ed economica. La democrazia in Mali non è reale, è solo sulla carta; nel nord del paese continua la guerra civile e ci sono spesso attentati compiuti dai separatisti tuareg e dai fondamentalisti islamici. Le condizioni economiche sono molto precarie e si riesce a trovare un lavoro solo se c’è “qualcuno di potente che ti aiuta”. Io ho frequentato la scuola superiore nella capitale, Bamako, ma non ho avuto la possibilità di finire gli studi e ho dovuto iniziare a lavorare per rendermi indipendente, visto che provengo da una famiglia molto numerosa. Ho lavorato prima come gelataio in Niger, poi come stuccatore in Libia ma non mi pagavano e allora ho deciso di imbarcarmi per l’Italia…” Come ti trovi a Molfetta? “Non mi piace giudicare – risponde quasi imbarazzato – Molfetta è simile ad altri luoghi, ci sono brave persone e altre meno brave: a volte ti giudicano solo per il colore della pelle, non vogliono avvicinarsi a te e nemmeno conoscerti. All’inizio ho avuto molte difficoltà nel trovare una casa da affittare, dove poter rientrare la sera. Nelle agenzie immobiliari non si fidavano di me e dei miei amici nonostante tutti avessimo un lavoro. Però, ho incontrato anche persone meravigliose con le quali mi sento bene: gli operatori dello SPRAR che mi hanno aiutato con le procedure di rilascio dei documenti e, soprattutto, nella ricerca del lavoro; i miei datori di lavoro, Massimo Caruso e Francesco Paolo Riefolo, sono molto gentili con me, cerco di essere il più professionale possibile e ho imparato tante cose nuove lavorando al Terra Madre”. Ti manca il tuo paese? “Sì, molto, soprattutto mia mamma ma non posso tornare in Mali: il permesso di soggiorno per motivi umanitari che ho ora mi permette di muovermi solo nell’Unione Europea, non ho un passaporto per recarmi in Africa. Le procedure burocratiche sono molto lente e sono nove anni che non vedo la mia famiglia”, gli occhi profondi di Karim non riescono a nascondere la nostalgia e la mancanza dalle quali la sua vita di oggi è segnata. Karim avrebbe voluto studiare Letteratura all’Università; mi parla di scienza e religione; vorrebbe crearsi una famiglia tutta sua e vorrebbe, un giorno, rivedere la sua terra riappacificata; non parla di politica perché crede che quello che i politici dicono, pensano e fanno siano tre cose in netta contraddizione tra loro. Alla fine della nostra chiacchierata ci abbracciamo e si allontana ricordandomi di scrivere la sua gratitudine: “io sono grato a voi, agli italiani, rendete razze e colori diversi un’unica umanità, la vostra anima è accogliente, la più accogliente d’Europa. Tre volte grazie con il cuore aperto”. Dorangela Azzollini con Diakite Karim © Riproduzione riservata