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La scansione delle ore nel dialetto di Molfetta
15 febbraio 2008

Oggi ci sembra naturale dare ogni tanto un'occhiata all'orologio per sapere l'ora. Ci sembra normale avere degli orari ben scanditi e andare di fretta. Ci sembra, insomma, che esista una sola maniera di contare le ore. Nel Medioevo, invece, non era così. La vita quotidiana e le occupazioni principali degli uomini dipendevano da fattori e ritmi naturali, come luce e buio, caldo e freddo, sereno e intemperie. Perciò non nasceva la necessità di conoscere l'ora esatta. Bastava la divisione tra dì e notte, e per il resto si procedeva approssimativamente. Il “tempo” medievale non era l'ora o, meno che mai, il minuto: era l'anno, la stagione, il mese e il giorno. Il tempo medievale era un tempo lento e impreciso. Era un tempo imperniato sul calendario agricolo. Ogni mese era caratterizzato da particolari lavori campestri. Inoltre, l'anno amministrativo dell'Italia meridionale generalmente iniziava dal primo settembre, anziché dal primo gennaio. Il giorno, poi, veniva sì diviso in ore, ma le ore non erano tutte uguali. Le ore del giorno venivano calcolate dal sorgere del sole al tramonto. Le ore della notte erano computate dal tramonto al nascere del sole. In questo modo d'estate le ore diurne erano più lunghe di quelle notturne e d'inverno accadeva il contrario. Se si escludono le meridiane, che avevano il grosso inconveniente di essere inutilizzabili di notte o col cielo coperto, con una certa approssimazione si può dire che fino al Duecento inoltrato quasi nessuno aveva un'idea precisa dello scorrere del tempo. Ad esempio, i monaci si regolavano a seconda del numero di pagine lette: tante pagine equivalevano a un'ora. Altri si basavano sulle clessidre ad acqua o a sabbia: in un'ora una certa quantità di acqua o di sabbia passava dalla coppa di vetro superiore a quella inferiore. Altri ancora si regolavano sui ceri e sulle candele: in un'ora si consumava un pezzo del cero o bruciava una candela. Nel corso del Trecento, grazie agli orologi a peso, nelle città cominciò ad affermarsi un modo differente di contare le ore: le ventiquattro ore ebbero tutte la stessa durata, suddivisa in sessanta minuti. Questi orologi, dotati di congegni a suoneria, si diffusero ben presto sulle torri dei palazzi comunali delle più importanti città d'Europa, da Firenze a Siena, da Parigi a Gand, facendo concorrenza alle campane della cattedrale. Nella seconda metà del Trecento ed oltre, i ceti urbani si erano ormai abituati a computare il tempo secondo ore uguali, pur con le imprecisioni dei congegni meccanici. La maggior parte della gente, tuttavia, continuava a basarsi sul suono delle campane della pieve del villaggio o delle chiese della città. Le campane chiamavano alla messa o agli altri servizi divini. Le campane scandivano due momenti della notte e sei del giorno. Erano le cosiddette ore canoniche, corrispondenti a determinate funzioni religiose e varianti col ritmo delle stagioni: mattutino (penultima fase notte), laudi (scorcio prima dell'alba), prima (6 circa), terza (verso le 9), sesta (mezzogiorno), nona (15 circa), vespro (prima del tramonto), compieta (periodo antecedente al riposo notturno). Nella Commedia Dante Alighieri non manca di fare cenno alle ore canoniche. Ad esempio, nel Paradiso (XV, 97-99) menziona le ore terza e nona rievocando la campana della chiesa della Badia, che faceva sentire i suoi rintocchi già all'epoca della vecchia e onesta Firenze del trisavolo Cacciaguida: «Fiorenza dentro da la cerchia antica, / ond'ella toglie ancora e terza e nona, / si stava in pace, sobria e pudica». Nel Purgatorio Dante ricorda sia la prima delle ore canoniche: «L'alba vinceva l'ora mattutina» (I, 115), sia il vespro: «Vespero è già colà dov'è sepolto / lo corpo dentro al quale io facea ombra» (III, 25-26). Nell'Inferno (XXXIV, 96) rammenta un'altra ora: «e già il sole a mezza terza riede» (per dire che erano le 7 e mezza del mattino). Nel Paradiso (XXX, 1-2) l'Alighieri descrive anche mezzogiorno: «Forse semilia miglia di lontano / ci ferve l'ora sesta…». Ma i versi più famosi riguardano l'ora e il suono della campana della compieta: «Era già l'ora che volge il disio / ai navicanti e 'ntenerisce il core / lo dì c'han detto ai dolci amici addio; / e che lo novo peregrin d'amore / punge, se ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more» (Purgatorio, VIII, 1-6).
Autore: Marco I. de Santis
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