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La scalata al cielo, un libro di Marino e Manuela Centrone Il liceo pensò di celebrare i caduti in quella guerra nel suo edificio. Fu deliberato di dedicar un'aula ai giovani guerrini liceali, fornita di lampada perenne: “È là - disse il prof. Domenico Magrone - una lampada votiva che arde e irradia il nuovo santuario, ove un dovere chiama a raccoglimento”
15 luglio 2008

Esistono molti modi per scalare il cielo. La poesia, l'arte, la musica, la scienza, l'atto d'amore”. Sono le parole con cui si apre l'introduzione del volume “La scalata al cielo. Il pensiero filosofico di Jean Cavaillès”, un bel lavoro a quattro mani curato da Marino e Manuela Centrone per i tipi di Levante editori (Bari). Il volume costituisce l'undicesima uscita di una pregevole collana consacrata ai “Problemi della scienza” e diretta da Mario Castellana. In essa hanno trovato collocazione anche altri titoli di Centrone, professore aggregato di Filosofia della scienza presso il Dipartimento di Scienze Filosofiche dell'Università di Bari. La prima sezione del volume esplora la scalata al cielo di un filosofo e matematico francese, Jean Cavaillès, in un percorso che dalla storia degli uomini muove a quella delle idee e viceversa. Rivive l'esperienza di un intellettuale di grande levatura morale, torturato e ucciso dai nazisti, per poi finire in una fossa comune come lo “Sconosciuto n. 5”, “epitaffio commovente” – scriveva Canguilhem – e consentaneo a un matematico, perché reca in sé l'inconnu e la somma – escluso il parimpari – del primo numero pari e del primo numero dispari. Centrone non manca di sottolineare la novità delle tesi del Cavaillès, in un momento in cui in Francia non s'era instaurato un dibattito “sui fondamenti della logica e della matematica”. Di particolare interesse ci sembra la sezione consacrata al “Carteggio Cantor-Dedekind” che, come lo studioso sottolinea, c'introduce efficacemente nella “giungla della scoperta scientifica”, fornendo concreta dimostrazione delle difficoltose tappe di estrinsecazione della scalata al cielo. Segnaliamo anche il capitolo nono “Il pensiero matematico”, che evidenzia come si debba considerare le matematiche “in divenire”, studiandone la storia quali prodotti di attività intellettuali, senza collocarle in un intangibile iperuranio. La seconda sezione “Il Cielo, la Terra, il Paradiso” è frutto dell'estro e della profondità concettuale del percorso artistico di Manuela Centrone. La giovane, diplomata in Pittura presso l'Accademia delle Belle Arti di Venezia e studiosa di Arti Visive presso la Sorbona di Parigi, prende le mosse da forme geometriche per poi addentrarsi in una seducente foresta di simboli. Dal cerchio al quadrato, attraverso l'anello mediano della croce, si disegna un percorso che dal divino (“Dio è un cerchio, il cui centro è La lapide dev'essere coeva all'orazione di Magrone, perché la dedica in calce ne ripete il linguaggio e l'ortografia (“quì” accentato): “Quì temprarono le loro anime al culto della Patria gli studenti eroici caduti MCMXV - MCMXVIII”. I nomi sono: Barile Gaetano, De Donato Diego, De Toma Salvatore, De Venuto Michele, Galeppi Giuseppe, Lezza Giuseppe, Marzocca Mauro, Poli F.Paolo, Rotondo Giuseppe, Azzollini Mauro, Labombarda Angelo, Mantelli Maurizio, Mastropasqua Filippo. Di questi Barile è nome d'un paesino lucano, che potrebbe essere all'origine del cognome, certo appartenuto a famiglie melfitane (un Barile Arturo di Melfi fu mio compagno di scuola media), De Venuto è giovinazzese come Labombarda, De Donato barese o della cinta, De Toma biscegliese, mentre Maurizio Mantelli era figlio d'un carabiniere allora in servizio a Molfetta. Forse è questo il motivo, per cui non sono nella toponomastica locale, ma non v'è anche Giuseppe Rotondo. Una via De Venuto è invece in Giovinazzo. Ma quest'elenco è diverso dalle nominazioni, anzi apostrofi, del professore cavaliere, che li evoca come “bella falange di fanciulli eroi”, certo a cominciare dal Silvestri. Essi nella successione delle apostrofi sono: Magrone Umberto, Losito Angelo, Ciccolella Giacomo, De Candia Tommaso, Picca Domenico, Carabellese Michele (caduto, sfortuna, a Vittorio Veneto il giorno prima della Vittoria), Silvestri Michele, Panunzio Antonio, Marcolongo Vincenzo, Francavilla Vincenzo, Bufi Sergio, (il buon) Marzocca, Introna Peppino, De Donato Diego, Rotondo Peppino, Lezza Nicola. I nomi comuni al discorso ed alla lapide sono: De Donato, Rotondo e Lezza (Nicola lì, Giuseppe qui). Quelli del discorso sono sicuramente di studenti liceali e danno il nome alle vie tra Baccarini e Salvemini in questa successione a partire dal viale Pio XI ma a diverse altezze: Carabellese, Marzocca, Silvestri, Losito (non Lusito), Magrone. Sale invece dal viale a via Giulio Cozzoli o, se si vuole, al recinto ferroviario la via dedicata a De Candia. Tra le vie Carabellese e Marzocca è una via De Gennaro, che non seguì studi classici e, ricorda il nipote, prof Giovanni De Gennaro, era dei pochi ufficiali di carriera (usciti da Accademie), come Carabellese. Staccati da questo nucleo sono Lezza (se si tratta di lui) tra via Giovinazzo e lungomare Colonna, strada intersecante la via sottotenene Caputo; Bufi tra via Volta e via Baccarini e Galeppi (della lapide) tra le vie La Vista (che scende a piazza Garibaldi) e Baccarini. Non sono state dedicate vie a Ciccolella, Marcolongo, Francavilla, Introna oltre i già citati della lapide, tranne Galeppi. A Francavilla fu intitolata la rinata Università Popolare Molfettese fino alla soppressione delle associazioni, soccombenti all'Opera Nazionale Balilla prima e alla Gioventù Italiana del Littorio poi. Di Domenico Picca, che il professore introduce con un verso dantiano (dedicato a Manfredi di Svevia: “Biondo era e bello e di gentile aspetto”, Purg. III, 107), poco mutato: “Biondo, bello era…”, se era liceale in atto o da poco uscito, sorprende l'età, che Mauro Uva nel suo libro sugli uomini illustri pone al 34esimo anno: morì nel 1916 a Doberdò. Anche su Panunzio bisogna far luce: delle due vie, una molto eccentrica, in zona cioè di corso Fornari, l'altra a fianco della scuola “Battisti”, nessuna ha il nome Antonio, ma Giuseppe e Giovanni. Aveva più d'un nome, come Lezza forse, come Paolo Poli e Picca (Domenico Cataldo Luigi) certo? Sulle figure sbozzate dal prof Magrone vorrei tornare in un successivo scritto, perché hanno tratti suggestivi, che danno un aspetto meno indefinito a questi “fanciulli eroi”. Nella serie toponomastica prevalgono i capitani, ma giovani ufficiali o sottufficiali caduti in quella guerra sono sparsi, penso, in quelli e altri luoghi della città: Pomodoro, Caputo, Binetti, Mazzara.
Autore: Gianni Antonio Palumbo
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