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L’ultimo scatto
15 febbraio 2022

Quattro sono gli elementi che concorrono a definire un fotoreporter di guerra: le sue idee e la sua visione del mondo; la possibilità di esprimerle e documentarle in libertà; tecnica, esperienza e infine coraggio. Personalmente, ritengo che il primo di questi fattori condizioni gli altri: non credo ai reportage asettici, alle cose ed ai fatti che “parlano da soli”. I fatti, ed i relativi scatti parlano la lingua, cioè il messaggio, che sta nella testa del reporter. Si pensi al Vietnam. Mai il fotogiornalismo ci aveva mostrato la guerra in maniera così brutale e drammatica, documentandone gli orrori e l’inutilità. Gli storici concordano nel ritenere che quelle immagini abbiano avuto un enorme effetto mediatico in tutto il mondo ed abbiano contribuito alla sconfitta americana. Le ragioni sono molteplici: la libertà di movimento dei numerosi fotoreporter, il loro pacifismo, la volontà politica che, paradossalmente, concesse all’inizio tale possibilità per fini propagandistici; infine le caratteristiche del conflitto. Ma le istituzioni politiche e militari non commisero più quell’errore. Da allora le guerre sono diventate “invisibili”. I reporter agiscono individualmente senza l’appoggio e la protezione delle autorità militari, anzi contro di esse. Questa situazione li espone a rischi altissimi in un clima che spesso favorisce l’eliminazione di testimoni scomodi da parte delle diverse ed incontrollabili fazioni contrapposte. Quello che noi ora vediamo in televisione è quanto le agenzie governative decidono che si possa vedere, e che sia compatibile con le disposizioni dei servizi segreti militari. La televisione italiana ci ammorba recentemente le serate con ripetute sequenze sugli spaventosi carri armati russi. Ma chi ha mai visto le centinaia di tonnellate di bombe, missili e aerei che l’America sta fornendo all’ Ucraina? La NATO comanda anche sui media, ma ha trovato un osso duro. Il fotogiornalismo, quale noi lo conosciamo, nacque con la guerra civile spagnola. Subito dopo la ribellione fascista, accorsero in Spagna decine di fotografi che documentarono con immagini straordinarie la resistenza di tutto un popolo. Tra questi vi fu Gerda Taro, sostenuta dalla simpatia degli spagnoli. Molti decenni dopo, un’altra fotografa, Anja Niedringhaus, animata dallo stesso coraggio e dalla volontà di documentare le sofferenze e l’orrore di un’altra guerra, ma questa volta in assoluta solitudine, veniva assassinata da chi credeva dovesse proteggerla. Gerda Taro (nata Gerta Pohoryll) nacque a Stoccarda nel 1910, da una famiglia della buona borghesia ebraica. Nel 1927 si trasferisce a Ginevra, dove ha modo di frequentare ambienti democratici e socialisti. Il 30 gennaio 1933 Hitler prende il potere, eletto dalla maggioranza del popolo tedesco. Il 19 marzo Gerta è arrestata ed imprigionata a Lipsia, con l’accusa di aver distribuito volantini anti nazisti. In Germania è l’inizio del terrore: due suoi fratelli sono ricercati come comunisti, ed anche lei comincia a temere per la sua liberà. Tuttavia, il suo passaporto polacco e l’inconsistenza delle accuse le consentono, dopo una breve detenzione, di essere rilasciata. Alla fine dell’estate del ’33 è a Parigi, dove si mantiene con lavori saltuari e magri sussidi familiari. Nella capitale francese frequenta alcuni tra i più importanti protagonisti dell’esilio intellettuale e politico europeo, genericamente compatti nel loro antifascismo, ma non altrettanto nei confronti della Russia staliniana. Gerta ha un carattere estroverso, conciliante, incapace di risentimenti e di odî di parte. Nel settembre del ’34 incontra il giovane fotografo ungherese André Friedmann, anch’egli di origine ebraica, fuggito in Francia dopo essere stato imprigionato dalla dittatura di Horthy. Nell’estate del ’35 i due giovani fotografi allacciano la loro relazione sentimentale. André insegnerà a Gerta i segreti della tecnica fotografica e del fotoreportage e con il passare del tempo, si svilupperà tra i due una osmosi spirituale e politica, evidente anche nel loro lavoro, che condizionerà, dopo la morte, l’attribuzione dei rispettivi scatti non firmati. Un grosso problema ancora, in parte, irrisolto. Nel luglio del 1936 i ribelli fascisti insorgono in Spagna contro la Repubblica Democratica, assassinando nella loro avanzata migliaia di civili. Il popolo insorge, si arma e si difende insieme a parte dell’esercito. Accorrono da tutto il mondo decine di migliaia di volontari. Alla fine del mese, Gerda Taro e Ropert Capa, questi i due nuovi nomi che li consegneranno alla storia del Novecento, sono in Catalogna. Gerda sarà presente in diversi fronti, fotograferà numerose battaglie, invierà ai giornali dei paesi democratici reportage agghiaccianti sulle stragi dei civili causate dai bombardamenti fascisti. Con inaudito coraggio, opererà sulla linea del fuoco, incoraggiando i soldati ed incitandoli a resistere. Il 25 luglio 1937, durante la battaglia di Brunete, si trovò nel mezzo della caotica ritirata repubblicana; chiese un passaggio ad una macchina che portava feriti; non essendoci posto, salì sul predellino. Ad un tratto, incrociarono un carro armato che nella confusione sbandò, urtando la macchina e sbalzando la giovane che finì sotto i cingoli. Morì all’alba del giorno dopo. Il primo agosto la salma fu accompagnata al cimitero Père-Lachaise di Parigi, seguita da decine di migliaia di persone. La foto che pubblichiamo è di grande impatto emotivo. Gerda giace sul letto di morte, mentre un uomo, il medico britannico di origine ungherese Janos Kizsley – volontario delle Brigate Internazionali – deterge il sangue uscito dal naso e dalla bocca. L’immagine, rimasta inedita per 80 anni, è stata pubblicata dal figlio di Janos, Iohn, e l’autenticità è testimoniata dalla dicitura sul retro. Gerda soffrì e morì con grande coraggio, così come con coraggio si era impegnata per la libertà contro il fascismo. Robert Capa morì nel 1954 in Indocina, per lo scoppio di una mina, dopo aver documentato, tra l’altro, gli orrori dell’occupazione giapponese della Cina e diversi fronti della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza europea. Anja Niedringhaus è nata in Germania nel 1965. Nel 1989 fotografa il crollo del muro di Berlino. Trascorre dieci anni a Sarajevo come inviata di guerra. Nel 2002 entra a far parte del Associated Press, per la quale lavora In Iraq, Striscia di Gaza, Israele, Kuwait, Turchia e Afghanistan. Ha meritato numerosi premi e riconoscimenti, anche per la sua attenzione alle conseguenze economiche e sociali provocate dalle guerre in oriente e dalle responsabilità dei paesi occidentali. La mattina del 4 aprile 2014 è morta falciata, nei pressi di Kabul, da una raffica di mitra sparata da un talebano travestito da poliziotto. Erano i giorni che precedevano le elezioni presidenziali, si erano verificati numerosi attentati contro i reporter, ma Anja aveva continuato il suo lavoro con il solito sprezzo del pericolo. Undici anni prima una sua foto era diventata l’icona simbolo di quella guerra. Il 12 novembre 2003 un’autocisterna imbottita di tritolo forzò l’entrata della base italiana “Maestrale”, ed esplose. Morirono 9 civili afghani e 19 italiani, tra i quali 17 militari e 2 civili. Anja accorse tra i primi sul luogo dell’attentato. Questa la testimonianza del caporal maggiore Mattia Piras, il soldato italiano ritratto dalla reporter tedesca: “Anja scattò quella foto, ed erano già passate più di sei ore, ma per me il tempo si era fermato[...]. Avevo accompagnato i primi giornalisti a vedere gli effetti dell’esplosione: c’era anche lei, la “tedesca bionda” come la chiamavamo [...] Mi misi di guardia, davanti a me non vedevo nulla, ero stravolto, mi asciugavo il sudore, le lacrime [...] non mi accorgevo di nulla [...] in quell’attimo lei fece clic. © Riproduzione riservata

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