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Introduzione alle carte di Gaetano Salvemini
15 novembre 2013

Il mio primo incontro con Gaetano Salvemini avvenne nel 1954. Egli era nato a Molfetta il 1873 e si spense poi a Sorrento, all’età di 84 anni, il 1957. Fu storico e meridionalista e per tutta la vita lottò per il riscatto delle popolazioni più misere della sua terra. A Messina, nel terremoto del 1908, perse tutta la famiglia: moglie, cinque figli e una sorella. Fino al 1911 aderì al partito socialista. Con Giustino Fortunato, fondò il settimanale “L’Unità”, che per un decennio educò generazioni di giovani ai problemi politici ben delimitati e concreti. In seguito Gramsci adottò il titolo del settimanale, per il suo quotidiano. Salvemini denunciò i brogli elettorali del periodo giolittiano con il libro “Il ministro della malavita”, quando Giolitti era onnipotente ed appoggiato anche dai socialisti. Si oppose fin dall’inizio al movimento fascista e nel 1925 fu arrestato per aver pubblicato clandestinamente il giornale “Non mollare”. Emigrò in Francia, Inghilterra e poi negli Stati Uniti, e lì fondò un vivace centro di cultura italiana ad Harvard. Tornò in Italia nel 1947 e in seguito riprese la sua cattedra di Storia moderna a Firenze. Non prese la tessera di nessun partito, ma rimase fedele a quel socialismo della sua giovinezza che “voleva dare un tozzo di pane alla povera gente”. L’edizione dell’Opera omnia di Salvemini è stata pubblicata postuma dall’editore Feltrinelli di Milano. I titoli principali sono: Scritti sul Risorgimento, (1961), Scritti sul fascismo, (1961), La rivoluzione francese (1962), Il ministro della malavita, (1962), Magnati e popolani, (1966), oltre a moltissimi altri scritti ed articoli di carattere politico apparsi su giornali e riviste. Il primo luglio del 1954, dovevo laurearmi in filosofia presso l’Università Cattolica di Milano con una tesi di ricerca d’archivio, su I Catasti di Molfetta durante il periodo francese di Gioacchino Murat (1813). L’argomento era piuttosto anomalo per una laurea in filosofia, avendo io sostenuto un solo esame di Economia politica, come pure era strano che fossi stata guidata da una persona come Salvemini, in un ambiente notoriamente lontano dalle sue posizioni politiche. Erano tempi difficili per chi, come me, si avventurava fuori dal recinto stabilito. Ma l’incoscienza giovanile è grande e spesso è anche premiata. Avevo già ricopiato a macchina sei grossi polverosi volumi in folio dei Catasti nell’Archivio comunale del mio paese d’origine; avevo diviso le proprietà secondo il metodo del prof. Giovanni Masi, docente all’Università di Bari e mi pareva di aver completato ormai il mio lavoro. (Mi ero rivolta a un docente di Bari, perché non avevo trovato nella mia Università l’aiuto di cui avevo bisogno). Secondo Masi, che mi aveva guidato fin dall’inizio, “ce n’era fin troppo per una tesi”; quindi mi preparavo a raccogliere i frutti della mia fatica e a concludere. Invece Giovanni, col quale ero fidanzata e che aveva appassionatamente seguito le mie ricerche, mi suggerì di mettere in bibliografia un saggio su Molfetta, scritto da Salvemini nel 1897, saggio a quei tempi introvabile. Scrissi allora allo stesso Salvemini, che si trovava a Firenze e, purtroppo, non conservai la minuta della mia lettera. Allora non immaginavo tanta disponibilità in un uomo più che ottantenne e per giunta malato. La risposta, giuntami immediatamente, mi sbalordì. Mi diceva che avevo tra le mani un documento prezioso, i catasti e che la mancanza di altri studi analoghi era una fortuna e non una disgrazia, perché avrei avuto “meno roba tra i piedi a ingombrarmi la strada”. Un aiuto valido l’avrei trovato a Bari, nel prof. Vincenzo Ricchioni, allora Rettore dell’Università. Inoltre Salvemini voleva esaminare il mio lavoro e darmi altri suggerimenti. Un argomento che stava a cuore al maestro era la vendita dei beni ecclesiastici nel periodo francese e dopo il 1860. Io avevo letto il bellissimo romanzo di Francesco Iovine: “Le terre del Sacramento” e sapevo quanto drammatiche furono quelle vicende, in tutti i paesi. A dire il vero, non sono riuscita a trovare gran che su questo argomento; solo sentii da vecchi contadini che quelle proprietà erano considerate “scomunicate” e maledette, ma non approfondii la cosa. La prima stesura della tesi mi ritornò, a stretto giro di posta, costellata di note, suggerimenti, parole come “non capisco”, “non è chiaro”, “dove l’hai preso?”. Io mi chiedevo come mai lui non capisse cose che a me sembravano abbastanza chiare, poi a poco a poco mi resi conto che le fonti sul periodo storico trattato, erano di tipo “idealistico crociano”, cioè molto generiche; Salvemini, invece, veniva da un’altra scuola, quella “illuministico- positivista”. Per fortuna alle mie spalle avevo Giovanni che, maggiore di età, era più competente di me e mi aiutava moltissimo. Preparai una seconda stesura, ma anche questa mi ritornò allo stesso modo. Dovetti lavorare parecchio, con altre ricerche, per accontentare l’esigentissimo maestro. Nel frattempo ebbi la fortuna di conoscerlo di persona, a Bari, dato che egli tenne una conferenza al Palazzo della Provincia, su “Firenze ai tempi di Dante”. Ero emozionatissima; Salvemini lasciò tutte quelle persone importanti che stavano parlando con lui, mi prese in disparte e volle sapere come andavano le ricerche. Intanto continuavo a lavorare sui catasti e i miei dubbi crescevano: come era Molfetta nell’800, rispetto alle città vicine? Come identificare in loco la famosa “questione meridionale”? e altro ancora. Insomma volevo, giovanilmente, conoscere l’oceano, navigando in un bicchier d’acqua! Per fortuna avevo trovato un maestro che aveva capito di che pasta ero fatta e, al momento giusto, mi dava coraggio o, viceversa, mi frenava se correvo verso conclusioni affrettate. Una volta gli chiesi, con una certa sfacciataggine, se non avesse molto da fare, visto che mi rispondeva immediatamente. Mi rispose tranquillamente che, per lui, i lavori dei giovani passavano davanti a tutto. A me sembrava incredibile, eppure avevo conosciuto molti professori di Università validi e coscienziosi. Intanto il lavoro andava avanti e giunsi alla terza stesura della tesi. Nel frattempo era prossima la data fissata per il matrimonio e volevo laurearmi entro giugno e poi sposarmi. Quando Salvemini sentì di Giovanni e della famiglia da cui proveniva, ne fu molto commosso. La sua prima moglie, Giulia Maria Minervini, morta, coi suoi cinque figli, nel terremoto di Messina,nel 1908, era cugina di mio suocero; nella casa in cui sarei andata a vivere, in Via Marconi, 9, egli aveva trovato ospitalità ed aiuti durante le campagne elettorali del 1913 e del 1919. Quindi avemmo da lui l’invito ad andare a Firenze in viaggio di nozze ed essere suoi ospiti nella Pensione Leoncini, per tre giorni. Noi rimanemmo a Firenze una settimana e furono giorni indimenticabili. Salvemini ebbe la delicatezza di farci incontrare altri giovani, in modo che le conversazioni fossero interessanti. E lì conoscemmo Gaetano Arfè, Elio Conti, Elio Apih e tanti altri che ora non ricordo. La persona più interessante, però, fu Ruth Draper, l’attrice americana di ricca famiglia ebraica, che aveva procurato a Salvemini la cattedra di Storia della Civiltà Italiana ad Harvard. Ruth era stata la fidanzata di Lauro De Bosis, morto in volo, nel 1931, dopo un lancio di manifestini antifascisti su Roma. Lauro era un poeta e viveva esule a Parigi; pensava di spingere la popolazione romana a manifestare contro il regime, per provocare l’intervento del Papa e del Re contro il Duce. L’azione coraggiosa e romantica ebbe vasta risonanza, soprattutto all’estero, ma non ci furono i risultati che Lauro si proponeva. Giovanni ricordò all’illustre ospite che il suo maestro, Tommaso Fiore, aveva scritto, a quel tempo, una poesia sull’impresa di Lauro, poesia musicata, in seguito, da un giovane del gruppo liberalsocialista di Bari. Ruth si commosse moltissimo a quei ricordi e, dopo qualche giorno ci mandò un poema, scritto da Lauro, intitolato ”Icaro”, e un altro suo scritto profetico “Diario della mia morte”, che fu pubblicato postumo. Tra l’altro, l’incontro con Ruth, ci mise, successivamente, in contatto con i suoi amici Maritza e Roberto Bolaffio, che erano stati i migliori collaboratori di Salvemini in America e che lo ospitavano, a Boston, quando lui telefonava,dicendo: “Sono stanco, torno a casa”. Egli, cioè, si sentiva a suo agio solo in casa di questi giovani. La cosa più strana di quelle giornate di Firenze, era che il maestro ci interrogava con insistenza sulle condizioni di Molfetta in quel periodo. “Ah, ci sono quattro banche? Ai miei tempi non ce n’era neanche una! Ci sono 64.000 abitanti? Come fà a magnà tutta ‘sta gente?” (Quest’ultima battuta – aggiunse – era di Pio IX, quando vide per la prima volta la grande folla di piazza S. Pietro). A dire il vero, io ero lontanissima mentalmente dal mio paese, presa com’ero, ancora, dalle stimolanti esperienze di Milano; per fortuna Giovanni poteva rispondere a dovere e ce la cavammo bene. Ma intanto riflettevo sui travisamenti che si facevano a Molfetta a proposito di Salvemini: si diceva, per esempio, che egli non amava il suo paese, perché non andava a visitarlo, non voleva vedere i vecchi amici e cose del genere. Successivamente ci furono altre polemiche a proposito della tomba, che secondo alcuni non doveva trovarsi a Firenze, ma a Molfetta. La verità era che lui aveva già dichiarato, in una lettera scritta nel 1911 a Giacinto Panunzio, che lì “si moriva di asfissia culturale e morale” , ma soprattutto egli non voleva incontrare alcune persone che durante la dittatura si erano vergognate di lui e dopo, invece, volevano andare a stringergli la mano, facendo finta di niente. Comunque i Bolaffio, in seguito, ci fecero sapere che egli era venuto in incognito a Molfetta, insieme a loro, di sera, e aveva rivisitato con commozione i luoghi più importanti del paese. L’altra cosa che mi meravigliò, era che Salvemini voleva sapere nei particolari come era andato l’esame di laurea all’Università cattolica: “Ah, ti hanno fatto queste domande? Ti hanno dato questo voto? Sai, anch’io ho passato l’esame!”. Forse pensava che il suo nome mi avrebbe danneggiato, in quell’ambiente. D’altronde i giovani di oggi non riescono a farsi un’idea del clima di crociata e di sospetto che c’era ai tempi di Pio XII. Per fortuna alla Cattolica c’erano anche alcuni gruppi semiclandestini, con cui ero venuta a contatto e che presentavano una soddisfacente apertura mentale. Dunque la terza stesura della tesi fu ancora tempestata di note e osservazioni, anche dopo l’esame di laurea. Salvemini probabilmente sperava che io avessi potuto continuare gli studi storici come ricercatrice, ma forse non ero pronta e, nella mia mente, mi sarei accontentata di una cattedra nelle scuole superiori. Senza considerare che la nascita di due figlie, a distanza ravvicinata, cambiò molti nostri progetti. Ma torniamo alle carte che qui vorrei presentare. Ho riprodotto su un disco quattro stesure della tesi. Non ho aggiunto la quinta stesura, perché Salvemini non fece a tempo a esaminarla e quindi non ci sono sue note manoscritte. Mi rendo conto che gli studi sui catasti sono andati molto avanti, negli ultimi cinquant’anni. Queste carte tuttavia mi sembrano importanti non tanto per gli studi economici, per i quali la mia preparazione era scarsa, ma come esempio metodologico didattico di un rapporto di lavoro tra un maestro ed uno scolaro. Allo stesso modo, nelle botteghe medievali di Firenze, l’artista o il capomastro istruiva i suoi allievi, venuti dal contado: dava nelle loro mani del materiale e li seguiva passo passo.

Autore: Liliana Gadaleta Minervini
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