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In attesa del nulla Premiato un atto unico di Massimo Marino Memola
15 novembre 2022

Lunedì 3 ottobre si è tenuta presso il Teatro “Franco Parenti” di Milano, la cerimonia di Premiazione del X Concorso Autori Italiani, indetto dalla rivista Sipario. Il primo premio, sezione due personaggi, è andato all’Atto Unico “In Attesa”, del molfettese Massimo Marino Memola. L’autore, fondatore insieme al compianto fratello Manlio del Centro di Attività Teatrale “L’ Espressione”, è stato tra i protagonisti della vita culturale della nostra città per molti anni. Numerose opere della tradizione molfettese, insieme ad altre di autori locali, furono allestite con cura e dignità, pur nei limiti di un serio dilettantismo. Ma fu soprattutto nell’ambito del teatro d’avanguardia politica e sociale che il Centro si distinse per le scelte operate. Basterà citare alcuni autori, Brecht, Be- ckett, Fo, Ionesco, Pinter, De Filippo e tanti altri. Molti giovani si cimentarono con entusiasmo in opere spesso alquanto impegnative. Il pubblico fu, in genere, attento ed interessato. Erano tempi di speranze e illusioni: sembrava che un mondo migliore fosse possibile, sembrava che in qualche maniera potesse essere esaudito, come ebbe a scrivere Ivan Obracht, “l’insaziabile bisogno di giustizia che alberga ostinatamente in ogni uomo, e che lo sospinge a ribellarsi all’ordine sociale che gliela nega”. Ora si annaspa in liquami mediatici e politici. Alla fine degli anni Settanta non ci si accorse che nelle Direzione delle Banche Centrali, e negli stessi Governi, si metteva a punto a livello globale un colossale Colpo di Stato finanziario e neo-liberista che, sostenuto da una sofisticata e perversa sovrastruttura pseudoculturale, avrebbe impoverito miliardi di innocenti e arricchito smisuratamente pochi branchi di banditi. I personaggi dell’Atto Unico sono due, Hom, un vecchio grasso e cieco e Cob, il suo servo androide, che ha le sembian- ze di Hom da giovane e che con una canna da pesca cerca di sfamare il suo padrone. I due giacciono su di un’isola di rifiuti, circondata dall’oceano e ricoperta da un telo di plastica. Hom siede su un trono instabile, indossa un impermeabile da pescatore, occhiali scuri e stivali, e alterna momenti di lucidità ad altri di delirio onirico. Il sole tramonta e subentra il buio, rotto da un cerchio di luce che illumina soltanto l’isola e i protagonisti. Il vecchio sa che la morte è vicina, che il suo ciclo di vita sta per finire, eppure teme ancora per la sua incolumità e sopravvivenza, e chiede aiuto al servo che, con calma e senza rimprovero, confessa la sua impotenza. L’oceano sale inesorabilmente per il continuo scioglimento dei ghiacci e l’isola di rifiuti sarà presto sommersa. L’acqua è piena di annegati: il secondo Diluvio incombe. Hom ha fame, ordina istericamente a Cob di mettersi a pescare e questi obbedisce, ma il mare è ormai privo di vita. Il vec- chio torna allora al suo dormiveglia e ai suoi deliri, ricordando il passato, la gioventù, le lunghe estati, forse gli amori. Riconosce in Cob il suo aspetto di un tempo, e sembra invidiarlo per la sua immutabilità. Ancora qualche battuta ed il senso profondo dell’opera si dispiega in una grande arringa accusatoria nei confronti dell’ordinamento politico e sociale del presente. Ed è Cob, il non-uomo, che la pronuncia con implacabile efficacia. L’androide, macchina schiavizzata, si vendica così contro le miserie dei suoi artefici-padroni, svelando le menzogne che sorreggono il loro mondo. Vediamone i tratti salienti. «La vostra storia è piena di ipocrisie e di crimini nascosti, non solo dai regimi totalitari, ma anche da quelli che si autodefinisco democratici. Il totalitarismo degli stati totalitari ha un solo centro di potere, quello degli stati democratici, invece, ha più centri che si contendono il potere ed il denaro, strumentalizzando il consenso: ma i loro crimini sono molto simili. [ .... ] Questi Condor affamati di potere e di denaro facevano uccidere gente innocente, insediavano governi fantoccio, facevano ricadere la colpa di attentati sui loro avversari politici; infine con dittature o con libere elezioni farsa, legittimavano il potere di coloro che avrebbero custodito i loro interessi. Tutto in nome della libertà e del loro profitto. [ ... ] Quando, con l’innalzamento degli oceani, con la catastrofe ambientale, e con le pandemie la nemesi della storia ha iniziato la sua vendetta, spingendo i vostri simili a sfuggire dalla miseria causata dalla vostra avidità e ad invadervi pacificamente per vivere nei vostri paesi ricchi, lo avete impedito, lasciando spesso che il mare li ingoiasse. Questa è la vostra libertà. [ ... ] Avete creduto di essere i padroni della terra: prima esplorare, poi dominare con il vostro linguaggio trionfalistico di conquistatori. Ora siete soltanto vitti- me di voi stessi. Questo pianeta può fare a meno di voi, esisterà ed andrà avanti lo stesso. La natura ne ha abbastanza della vostra libertà. Il vostro antropocentrismo è soltanto poco più del pulviscolo dell’Universo». La filippica di Cob ha due evidenti matrici teoriche. La prima è di schietta derivazione marxista: se fosse stata scritta nel ’68, nessuno avrebbe potuto individuarvi qualche tratto anacronistico, il che dimostra che allora, come ora, si aveva ragione a dispetto della moltitudine di venduti che allora, come ora, si strappavano le vesti inorriditi, e che nel testo di Memola ispirano il flebile balbettio di Hom, in difesa delle liberà formali, del progresso, della scienza “benevola” e di altre simili fandonie. La seconda riguarda la crisi climatica, lo sconvolgimento, spesso irreversibile, degli ecosistemi, e le relative responsabilità. Uno scenario apocalittico che, insieme alle bombe nucleari russo-americane, stiamo cominciando ora a considerare “eventualmente” normale e possibile. Il signor Stoltenberg si candida così a diventare il quinto Cavaliere dell’Apocalisse. Cob ritorna poi a pescare in un mare di rifiuti e di annegati, mentre Hom abbandona ogni difesa del presente e ricade di nuovo in un confuso dormiveglia. Ricordi pervasi di nostalgia e malinconia, situazioni emotive rievocate da luoghi urbani, posti al confine tra realtà e sogno, lo scorrere inesorabile del tempo, la realtà ricurva sul proprio io fragile e smarrito. Intanto Cob ha ripreso a pescare e dopo qualche attimo tira su la lenza con due scarponi appesi all’amo e al- lacciati tra loro. All’insistente domanda di Hom risponde che potrebbero esse- re di Gogo o di qualcun altro “stanco di aspettare”. L’Estragone (Gogo) di Beckett ri- emerge dai rifiuti a ricordarci il non senso del mondo. Sull’isola scende la notte. L’immagine della terra compare nello spazio, alle spalle dei due naufra- ghi, poi si allontana e si perde nell’in- finto, accompagnata da un breve monologo finale di Hom, che riassume tutto il senso del testo e ci interroga. È inevitabile, dopo una lunga inutile Attesa, lasciarsi andare in una terra abbruttita «da infiniti egoismi ed infinite sofferenze, o la sua tranquilla, serena fragilità, la pienezza della sua vita, nonostante tutto, meritano ancora una tenue speranza?». La risposta, come scrisse e cantò il grande Bob Dylan e che sento di apporre a questo bel te- sto di Massimo Marino Memola, soffia (ancora) nel vento. © Riproduzione riservata

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