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Il “vecchio Socrate” si spegne lentamente INEDITI – Salvemini nel ricordo di Giovanni Minervini – PARTE III
15 novembre 2005

Pubblichiamo, per gentile concessione della prof. Liliana Gadaleta, l'ultima parte della lettera inedita rinvenuta, quasi per caso, nell'archivio privato della famiglia Minervini. E' un documento straordinario: una missiva inviata in America, nel 1962, da Giovanni Minervini, allievo prima e studioso poi di Gaetano Salvemini, ed indirizzata ai coniugi Bolaffio, cari amici del grande storico molfettese, tanto da averlo spesso ospitato, per lunghi periodi, a Boston, durante la sua permanenza negli Stati Uniti. In queste righe, tra i ricordi in prima persona di Giovanni Minervini, ricchi di aneddoti e di citazioni, si rinviene uno spaccato memorabile della vivacità culturale che caratterizzava gli ambienti “salveminiani” di Molfetta, durante e dopo la seconda guerra mondiale, oltre che un insolito ritratto privato dell'indimenticabile “testimone di libertà”, nostro concittadino. Giu. Cal. Rividi Salvemini, con un gruppo di amici molfettesi, il 28 ottobre, nello studio dell'avv. Altamura a piazza Colonna. Rimanemmo a colloquio per circa due ore. Furono ricordi di occasione, riguardanti le elezioni del 1913. Penso che Salvemini sia rimasto seccato (anche l'amico Gadaleta mi confermò la stessa impressione) del tempo perduto e di quei ricordi “archeologici”. Un attimo di animazione ci fu allorquando un celebre avvocato di Molfetta, dette una notizia che a me parve imprecisa. Replicai forse duramente, perché seccato anche io del tempo che avevamo fatto perdere al maestro. “Ecco, ecco gli azionisti – disse Salvemini sorridendo, puntando il viso verso di me – tutti di un modo!” Il colloquio terminò con l'immancabile fotografia-ricordo. Di ritorno a Molfetta, forse perché elettrizzati dal suo incisivo e penetrante discorso, decidemmo di propagandare l'idea federalista tra i giovani. L'apostolo di questa idea, a Molfetta e fuori, fu l'amico Antonio Gadaleta, il quale, dopo aver diretto un settimanale di cultura “La Voce di Molfetta” (con una significativa menzione di Salvemini su “Il Ponte” di Calamandrei n. 5, maggio 1951, pagg. 556-557, e di Italo Pietra su “L'Illustrazione italiana”), si era buttato con passione e tenacia, con dattiloscritti, lettere stampate e pubbliche conversazioni a propagandare l'idea federalista. Tutto ciò, prima che le alte sfere politiche ed accademiche, fiutando il vento propizio, fossero entrate in scena, per monopolizzare e diplomatizzare il movimento federalista europeo. Col consueto atteggiamento critico, ma paterno, da educatore, Salvemini in data 29 settembre 1953 scrisse: “…Ricevei anche le lettere federaliste. E credo che facciate un ottimo lavoro. Solamente vorrei che steste bene attenti a non credere facile l'impresa. Finchè Francesi e Germani – o meglio solide correnti della opinione pubblica dei due paesi – non si mettono d'accordo, l'Italia può far poco. Solo se quei due governi si mettono d'accordo, l'opera italiana può riuscire efficace. Ora come ora possiamo solo affermare un principio e una necessità”. Restò profondamente commosso all'annunzio della morte di mia nonna paterna. In data 27 gennaio 1952 da Sorrento così mi scriveva: “Carissimo, sono rimato molto afflitto per la morte di 'Zia Corrada'. Essa era stata sempre assai buona con me, come 'Zio Giovanni'. E me ne ricordavo e me ne ricorderò sempre con affetto e riconoscenza”. Gli anni sono anni per tutti, e la fine avverrà per tutti noi. Io, a 78 anni e rotti, vivo alla giornata e penso continuamente alla morte desiderando di affrontarla con coraggio come una necessità alla quale non ci si sottrae. Con tutto questo, il vedere sparire una persona, che è stata buona con noi, è come vedere anche noi morire qualcosa di noi stessi, prima che perisca l'insieme…”. Ma Salvemini maestro, lo conobbi dopo, allorquando mia moglie (1954) nel preparare la sua tesi di laurea si rivolse, consigliata da me, a lui per chiedere una copia del saggio sociologico “Molfetta nel 1894”. Salvemini, non solo rispose, con nostra grande meraviglia, a giro di posta, ma scrisse: “Avrei piacere di leggere il suo lavoro… Io resterò a Sorrento fino alla fine di aprile, poi tornerò a Firenze in via Sangallo. Mi scriva”. Così per cinque mesi, fin quando lei non discusse la tesi di laurea all'Università Cattolica, mantenne una fittissima corrispondenza (una trentina di lunghissime lettere, circa). Come già precedentemente era capitato a Nello Rosselli e a tanti altri discepoli di Salvemini, anche lei passò i suoi guai, rifacendo da cima a fondo la sua tesi di laurea, per ben cinque volte. Tesi che ogni volta saltava per aria, demolita e tempestata dalle giustissime critiche di metodo dell'esigente maestro. Quando nell'Aula magna dell'università assistevo alla discussione della tesi, ed il prof. Viora, che fungeva da correlatore, affermò “Metodo sicuro”, 'accidenti – mormorai tra me – se costoro sapessero con quale giudice severo costei ha lavorato, forse capirebbero di più”. Poi, con mia moglie, fummo ospiti di Salvemini in via Sangallo. Giornate indimenticabili! Fu lì che conoscemmo Arfè, Aphi, Conti, Ruth Draper, l'ambasciatore Martini, che attualmente dirige la casa editrice Lémonnier, e se fossimo rimasti ancora, soggiunse mia moglie, avremmo conosciuto anche il Presidente della Repubblica. Con quanto amore, con quanta commozione chiedeva notizie sull'andamento economico, politico e sociale di Molfetta. (Dico ciò per rispondere a certuni che hanno parlato di odio di Salvemini verso Molfetta ed i molfettesi. “Ma se il mondo sapesse”… affermo col padre Dante). Prima di congedarci, sorridendo disse a mia moglie: “Lasciami il manoscritto; te lo tempesterò di note!”. Una sua dedica “a Giovanni e Liliana Minervini augurando felici tempi (22/7/1954)” pose fine al nostro soggiorno fiorentino. Poi la corrispondenza epistolare si infittì, tanto più che Salvemini nel raccogliere gli scritti sulla questione meridionale, stava preparando un saggio su “Molfetta nel 1954” ed aveva bisogno di certe informazioni. Risposte date a giro di posta. Lettere a lui indirizzate tornavano al mittente precisamente, esattamente dopo due giorni. Ogni tanto una implacabile cartolina postale: “Sei riuscita a definire chi erano i lavoratori del mare?”. Si trattava di una questione ingarbugliata da definire presso l'archivio notarile di Trani sulla esistenza o meno di detta società e cosa fosse. E con una postale del 6 dicembre: “Carissima Liliana, tu hai risoluto il problema che mi interessava, determinando che i “lavoratori del mare” erano una società di mutuo soccorso tra pescatori. Grazie assai assai. Fra qualche giorno ti manderò un manoscritto che ti prego di esaminare e rinviarmelo con le tue osservazioni o correzioni”. Restammo turbati e sbalorditi da quest'ultima affermazione. Caro, caro Salvemini, quanta modestia da parte tua, ma quanta fiducia ed incitamento tu sapevi infondere nei giovani! Ma poi in una nostra fugace visita a Sorrento nel maggio del 1955, lo trovammo stanco, terribilmente stanco ed ammalato. Ci congedammo da lui, col pianto nella gola, con un lungo bacio. E dopo, lettere, sempre lettere. Nacque la prima bambina, ed all'annunzio della nascita, egli indirizzò la risposta alla signorina Donatella Minervini, con una postale, che è una arguta, umana e commovente scrittura che noi conserviamo tra i ricordi più cari di Salvemini Nel 1956 nacque la nostra secondogenita. Ecco l'immancabile postale indirizzata alla piccola: “Mille affettuosi auguri di vita felice. Ma per carità 'leva mano'! La tua mamma riceverà, spero, un libro che le dirà come !!!”. Si trattava del volumetto “Berneri e Zaccaria: “Il controllo delle nascite”, che il terribile vecchio ci inviava. A buon intenditor…! Ma mia moglie, forse perché punta sul vivo, preparò un lungo dossier, con ritagli de “La Stampa” di Torino sul problema “Il controllo delle nascite” che tanto l'assillava. Salvemini, che stava molto male, questa volta rispose non di suo pugno, ma con una lettera dettata alla Giuliana Benzoni. Lettera bellissima, che forse i cattolici, non i “nipotini di padre Bresciani”, ma gli eredi di Cavour, Lambruschini o di Temolo, potrebbero senz'altro accettare. Poi la fine. Eravamo in campagna. Sui giornali leggemmo con preoccupazione notizie poco rassicuranti sulla salute di Salvemini. Che c'era stato un consulto di medici; che gli amici più fedeli al maestro accorrevano da ogni parte alla Rufola; che persino dall'America erano giunti i Bolaffio, i cari, indimenticabili amici. Tra una pausa e l'altra della malattia, Salvemini aveva persino gustato un delizioso monologo della Ruth Draper, inciso su un disco portato dai Bolaffio, forse per alleviare le sofferenze, le terribili sofferenze, del vecchio che si spegneva. E poi le ultime parole agli amici presenti e lontani, che erano di incoraggiamento e di sapiente ironia. Il vecchio Socrate si spegneva lentamente. “Ma questo terribile cuore – sospirava – resiste, non molla ancora”. Col pianto alla gola ascoltai al telefono, dall'amico Finocchiaro, il racconto degli ultimi istanti del nostro. Pedalando, con grande stanchezza, raggiunsi in campagna mia moglie. Era ormai il vespero fresco. Solitari, spettrali, i cipressi della nostra campagna ondeggiavano mossi dalla brezza settembrina come per inchinarsi davanti alla salma dell'uomo che scendeva nella terra umida. Si era spento il maestro, l'amico “più giusto e più buono”, che tanto amavo dopo mia madre. Un abbraccio fraterno da Giovanni Minervini 3 - fine
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