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Il Pulo: errori, etimologie e motti dialettali Frammenti di storia
15 settembre 1999

di Marco de Santis Tra i luoghi più cari al cuore dei Molfettesi c’è il Pulo, che di tanto in tanto torna agli onori e ai disonori della cronaca. Anche in questi ultimi anni la “Gazzetta del Mezzogiorno” ha dedicato ampio spazio alla località molfettese e recentemente Lucrezia D’Ambrosio ha scritto l’ennesimo pezzo sulla dolina. Si sa che i quotidiani hanno tempi di gestazione e pubblicazione rapidissimi e che per questo sono frequenti i refusi e i dirizzoni. Se i primi sono giustamente considerati peccati veniali perché raramente dovuti agli autori, i secondi vanno giudicati con minore indulgenza, soprattutto quando vengono corrivamente ripetuti. Più alto è il rispetto per i lettori, più vigile deve essere lo scrupolo documentativo e informativo dell’articolista. Non mi pare che ciò si possa dire dell’inchiesta della stessa giornalista intitolata Bentornato vecchio Pulo la carta in più di Molfetta, apparsa il 18 luglio 1999 sulla pagina del Nord Barese della “Gazzetta”. L’articolista mi vorrà scusare se, per quel medesimo rispetto dovuto ai lettori (scolari, studenti e insegnanti compresi), mi permetto di rimediare a qualche suo errore per un più preciso inquadramento di alcuni fatti storici. La nitriera borbonica sul fondo della dolina non è stata scoperta grazie agli scavi effettuati nel 1997 o nel 1998 o «nei mesi scorsi», come ella scrive, ma era ben nota da tempo agli studiosi del sito. I suoi ruderi erano individuabili a occhio nudo, oltre che con l’ausilio di mappe e di uno schizzo del 1788 dovuto al mineralogista inglese sir John Hawkins. Le più antiche presenze umane nel Pulo non risalgono «al VI secolo avanti Cristo», come la D’Ambrosio opina, ma a un periodo compreso approssimativamente tra la fine del VI millennio e la metà del III millennio avanti Cristo. I primi scavi archeologici all’interno della dolina non rimontano «all’inizio del 1900», ma al 1784, quando l’abate padovano Alberto Fortis, che l’anno prima aveva scoperto il salnitro nelle grotte, e il canonico molfettese Giuseppe Maria Giovene rinvennero reperti ceramici a impasto di tipo buccheroide, asce di giadeite, lame di selce piromaca e ossidiana. Inoltre, accennando alla «fitta vegetazione» del Pulo, l’articolista riferisce che «per lo più si tratta di fauna autoctona». Naturalmente si tratta di flora parzialmente autoctona, tra cui va segnalata la Micromeria nervosa, una labiata rara in Italia. Infine bisogna precisare che nella nitriera borbonica non «si realizzava la polvere da sparo», ma si estraeva il salnitro o nitrato di potassio. A sua volta il salnitro, mescolato con carbonio e zolfo, serviva per la produzione della polvere da sparo e per la preparazione dei fuochi pirotecnici. Per offrire a lettori, studenti e docenti un contributo più denso, affronterò anche la questione etimologica del toponimo Pulo, qualche anno fa maldestramente prospettata dalla dottoressa Maria Sasso nel saggio Il Pulo di Molfetta (in «Monumenta Apuliae ac Japygiae», a. VI, n. 6, dic. 1995, pp. 33-53), per la parte storica e scientifica tacitamente e largamente tributario di due miei studi sulla nitriera borbonica e sulla vegetazione del Pulo di Molfetta. La dott. Sasso ritiene insoluto il problema del nome Pulo «poiché le ricerche effettuate non hanno condotto ad una soluzione univoca» (sic!). Contrariamente a quanto la dottoressa sostiene, l’esattezza o la liceità di un’etimologia non dipende dall’univocità delle soluzioni o dalla concordia degli studiosi, ma dalla validità documentativa fornita o dall’attendibilità scientifica dell’interpretazione storica di una determinata parola. Ad esempio, l’etimo proposto nel 1899 da Eduardo Flores, secondo il quale il molfettese Pàulë deriverebbe dal latino pabulum ‘pascolo’, è foneticamente inaccettabile, perché il risultato dialettale nostrano del nesso bl (da -bul-) in posizione interna normalmente è gghj, come dimostrano le voci nègghjë ‘nebbia’ dal latino neb(u)la, nìgghjë ‘nibbio’ dal latino tardo nib(u)lus e assùgghjë ‘lesina’ dal latino sub(u)la. Da respingere è anche l’ipotesi avanzata da don Francesco Samarelli nell’opuscolo Il Pulo e Navarino stazioni neolitiche nel territorio di Molfetta e Bisceglie (Molfetta, 1909). Secondo lo studioso, il nome Pulo sarebbe stato dato verso la fine dell’età neolitica da immigrati greci provenienti da Pylos della Messenia sbarcati sulla costa occidentale molfettese nella località Palo, denominazione che a suo dire sarebbe «filologicamente» identica a Pulo. La colonia predominante dei Greci sarebbe stata quella di Pýlos Nabárinon, «la più antica capitale della Messenia», supponendo poi che un’immigrazione successiva avrebbe «sostituito al nome Pulo quello di Navarino». Ora, a parte l’inconsistenza di congetture campate in aria e l’inconciliabilità fonetica dei toponimi Pulo e Palo, l’accostamento fra Pylos messeniaco e Navarino (Pýlos Nabárinon) è storicamente infondato. Infatti il centro portuale di Navarino, che fu turco e veneziano, sorse sull’antica Pylos prendendo il nome dalle compagnie di viaggiatori della Navarra che dominarono l’area peloponnesiaca in questione fra il 1382 e il 1402. Tralasciando poi le interpretazioni dottamente aneddotiche dell’archeologo Maximilian Mayer, pure riportate dalla dott. Sasso, occorre avvertire che la tesi etimologica più accreditata pone all’origine del nome Pulo un relitto mediterraneo, verosimilmente affine al greco pýlê ‘passaggio, porta’, sorretto dai toponimi Pýlos, Vylênê [e Thermopýlai], come proposto dal filologo Giovanni Alessio nel Dizionario etimologico italiano (vol. IV, Firenze 1975, p. 3145). A sostegno della base linguistica mediterranea depongono pure il serbo e il croato polje ‘lunga e stretta pianura circondata da pareti, dolina’. Per questo tale ragguaglio etimologico sarà da preferirsi al latino pullus ‘conca’ (da pullare) prospettato come etimo, anche per il nostro Pulo, da Giovan Battista Pellegrini in Toponomastica italiana (Milano, 1990, p. 228), la cui degeminazione, se può andare bene per alcune località settentrionali, foneticamente non regge per i diversi puli pugliesi. Infatti la consonante geminata latina -ll- nella Puglia barese e foggiana dà luogo a -dd- e non alla consonante degeminata -l- (cfr. molfett. vòddë ‘bolla, bollicina’ dal lat. bulla). Per il Pulo di Molfetta anche le attestazioni latine medievali mostrano sempre la -l- scempia: Pulum nel 1173 e Puli nel 1256 e 1257 (Codice Diplomatico Barese, vol. VIII e VII). Per concludere ricorderò che Molfetta conta più di una sola cavità carsica. Oltre alla dolina più rinomata, conosce fra l’altro il Pulicello, sulla via di Bitonto presso San Liuzzo (San Leucio in Deserto); il Gurgo di Santa Caterina, a nord del Pulo, e Fondo del borgo, a sud-ovest della stessa fòiba, dove borgo è la corruzione di gorgo, dal dialettale gurghë sopraffatto da vurghë ‘borgo’. Gurgo e gorgo derivano dal latino gurges ‘vortice, profondità, abisso, pantano’. Dalla ricchezza di puli e inghiottitoi (capëvìëndë) del territorio molfettese è sorta l’esclamazione, raccolta da Rosaria Scardigno, vu fa nu pàulë! (che tu possa creare un pulo, che tu possa sprofondare!). Dalle indagini sette- e ottocentesche è nata invece la notorietà del Pulo come stazione preistorica anche fra gl’incolti. Subito l’irriverente popolino ne ha approfittato per coniare l’espressione signë du Pàulë, scimmia del Pulo. Non trovate che questo pizzico di darwinismo popolare e casereccio sia assai simpatico?
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