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Il potere della cultura che non è al potere… Gianni Antonio Palumbo interviene sul dibattito aperto su “Quindici” da Zaccaria Gallo
Un'immagine di Antonella Travascio dello spettacolo "Il Mercante di venezia" portato in scena da Massimiliano Civica
24 febbraio 2023

 MOLFETTAApriamo il dibattito sulla riflessione di Zaccaria Gallo su “Politica e cultura” con un articolo sull'argomento di Gianni Antonio Palumbo e invitiamo altri politici e intellettuali a intervenire

 “Ora posso passeggiare in incognito, compiere azioni basse, darmi alla crapula, come i semplici mortali. Ed eccomi qui, del tutto simile a voi, come vedete!”.

Nella seconda metà dell’Ottocento, nell’aureola perduta Baudelaire rappresentava l’abdicazione dell’intellettuale al ruolo di guida morale che, se era effetto del progredire/involvere della società, poteva anche rappresentare la fertile occasione per una poesia e un’arte nuove, una sfida insomma. Eppure, se, sul versante nostrano, ci spostiamo a considerare – per esempio – i nomi dei ministri della Pubblica Istruzione in quel torno d’anni, scorgeremo nel secondo Ottocento a più riprese quello di Francesco De Sanctis (su cui anche il più becero mestierante della politica non credo avrebbe il coraggio di controbattere) e poi, ancora, di Ruggiero Bonghi, Pasquale Villari.

Nel Novecento, ci limiteremo a citare solo un nome prima del diluvio fascista: Benedetto Croce. È un segno, questo, del fatto che forse, se anche l’intellettuale non aveva realmente la forza di incidere nel tessuto sociale, il prestigio che aurava ancora determinate figure poteva quantomeno contare qualcosa. Tale prestigio si consolidava attraverso una riconosciuta posizione accademica o la conduzione di riviste di notevole caratura scientifica (negli ultimissimi anni una minima attenzione a tale aspetto sembrerebbe forse tornare), fattori che tra l’altro di per sé non costituiscono nemmeno garanzie sufficienti... Se l’aureola era caduta nel fango ed era stata calpestata da “molte ciabatte di plebe” al pari del Garofolo rosso di una commedia di Antonio Fogazzaro, forse lasciava barbagliare ancora qualche tenue brillio.

Oggi crediamo di vivere l’apice della decadenza; dovremmo forse, invece, abituarci all’idea che essa sia ormai processo avviato e ‘progredito’ da secoli e la sua acme si sposterà di anno in anno sino all’implosione del genere umano.

Nell’Ottocento si discuteva dell’opportunità o meno dello studio del greco: «È poi anche una lingua ridicola! Quando mio fratello legge quegli sgorbi col professore non si sente che «ohi, cai, ahi, pai, tai, toi, e basta», si legge nel Parere di Ulisse di Fogazzaro. Sembrerà strano, ma - rispetto alle amene dame vicentine su cui lo scrittore ironizzava - non ci siamo oggi spostati di un millimetro quanto a comprensione della sua utilità. Discettiamo, dunque, della crisi a livello nazionale del Liceo Classico. Ci scontriamo sulla sua importanza o inattualità, divisi tra tecnicisti e professionalisti e le vetuste cassandre ostinate a difendere saperi muffiti in cui rientra quell’inutile orpello ch’è la letteratura italiana. Salvo poi stupirci nell’apprendere dal giornalista di turno che la difesa del Classico è stanca vessillifera del privilegio attribuito alla cultura umanistica. Privilegio che francamente, oggigiorno, non si comprende bene in cosa consista e dove abiti (“sugli alberi?”, si sarebbe magari chiesto Lorenzo Valla) in questo Bel Paese.

Ci si potrebbe spingere a dire che non solo la cultura umanistica è in questa società svalutata, ma in generale qualunque forma di sapere. L’opinione del virologo esperto valeva qualche mese fa quanto quella del “barbiero di Bellano” e della videolatra (o videolatrante) social. Il docente, poi, è figura così svilita da decenni di imbarbarimento progressivo da poter essere calciato o vilipeso dai virgulti a lui affidati. Finirà, denunciando, col subire la sorte della giovinetta stuprata e poi colpevolizzata perché aveva un abbigliamento ‘provocante’ o magari si era arrischiata a uscire sola in un orario a rischio.

È il mondo dello straniamento rovesciato, la cui icona più emblematica è l’influencer. Forte di un’immagine accattivante, assurge a modello di generazioni educate ad attribuire valore esclusivamente a ciò che si presenta dietro apparenze allettanti. La favola dei tre scrigni del Mercante di Venezia, che ispirò a Freud uno splendido saggio, è oggi fuori moda. Per effetto di un’assurda combinazione di elementi, persino una bromidrosi plantare in aereo diviene notizia se segnalata dalle persone e dai canali giusti, mentre le opinioni autorevoli (non quelle della ‘nobiltà’ politica o del jet set del mercato dell’apparenza) cadono nel fondo del pozzo e s’inabissano.

In tutto questo gli intellettuali hanno una colpa non da poco e non è quella d’esser poco nazional-popolari. Se per diventarlo, infatti, si deve parlare alla pancia del vulgo – componente prevalente nel genere umano –, tanto vale starsene a Valchiusa senza acquistare il biglietto di ritorno. La vera colpa è quella di aver reagito alla perdita della capacità di incidere seriamente nella società e muovere le coscienze con la ricerca di altri effimeri poteri, miseramente connessi al narcisismo. Il potere di far valere il proprio peso specifico si esercita nei modi più svariati: stroncare carriere od ostacolarle per faide meschine o per eccessi d’umoralità; umiliare l’altro, enfatizzando, per le ragioni più svariate, il proprio pensiero allo scopo di annichilire il valore altrui; far cadere l’oblio su cose e persone meritevoli di memoria; incentivare la mediocrità, se connessa all’adulazione; scambiare scintillio di bigiotteria per luminosità degna di essere esaltata. Quando non si riesce a influire sulla società in maniera virtuosa, non resta che marcare il proprio microterritorio come le fiere e stabilire chi regna nella foresta.

Gianni Antonio Palumbo

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Autore: Gianni Antonio Palumbo
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