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Il gioco della tombola in un'inedita poesia dialettale di Pantaleo Nisio (1828-1888)
15 dicembre 2009

Tra gl’inediti del poeta Pantaleo Nisio, nato a Molfetta il 14 giugno 1828 e lì deceduto il 18 ottobre 1888, c’è un componimento in ottonari con rime incatenate e baciate intitolato Pastizzë a la mëlfëttèësë (Pasticcio alla molfettese), di cui ancora si conserva qualche copia manoscritta presso alcune famiglie. Essendo le altre poesie di Nisio databili o datate fra il 1868 e il 1888, anche questo poemetto può farsi approssimativamente risalire a quel periodo o a qualche anno prima. Pastizzë a la mëlfëttèësë sembra essere nato come brindisi da recitare nelle serate prenatalizie nelle bicchierate tra parenti e amici. La poesia, infatti, è un frizzante bozzetto famigliare e conviviale del periodo a ridosso del Natale per gli incontri e i giochi in cui la tombola ha la preminenza, con macchiette sapidamente tratte dal vero, in uno stile colorito e vivace, imperniato su una ripresa metrica appena variata e concluso nel brindisi finale alla padrona di casa. La prospettiva storica non deve essere falsata dall’attuale tenore di vita, improntato al benessere a tutti i costi e traviato dal consumismo, facendo pensare a bisbocce a base di panettone, pandoro, spumante o addirittura champagne, ma deve essere ricondotta alle condizioni postunitarie ottocentesche del Mezzogiorno, quando ci si accontentava di nocelline e salame, spesso comprati dall’intera brigata, nonché del vino e di qualche manicaretto salato preparato dalla padrona di casa, per esempio una buona frittata offerta agl’invitati in mezzo o in coda alle giocate. I dolciumi, infatti, in quell’epoca erano solitamente riservati alla vigilia natalizia, al Santo Natale e a Santo Stefano, oltre che alle feste pasquali e di quartiere, agli onomastici, ai compleanni, ai fidanzamenti e ai matrimoni. I personaggi del poemetto vernacolo appartengono alla piccola borghesia signorile del secondo Ottocento molfettese, ma potrebbero rappresentare e anzi rappresentano dei tipi universali, a cominciare dalla voce narrante, che è quella di un piccolo proprietario terriero o di un modesto professionista o impiegato, il quale s’industria con difficoltà tra tanti piccoli acquisti a credito, e una volta tanto che vince a tombola, si vede aggredito dalle risentite proteste e dai mugugni degli altri giocatori. Apre la galleria dei deuteragonisti u allìëvë dë Cosëmuddë (l’allievo diCosimuccio), un giovanotto baciato da un’inconsueta fortuna. Non poteva mancare u Nërvàusë (il Nervoso), un signore tanto schifiltoso quanto freddoloso e cagionevole di salute, che per sfuggire gli spifferi si mette a schitarrare in un angolo appartato. Compare poi la Chëmmêrë (la Commare), la padrona di casa, che risponde al nome di Zi Rëréttë (Zia Margherita), anch’essa molto fortunata. A lei si contrappone Beddëbebbé, un’altra rappresentante del gentil sesso, vanitosa e amante di trine, merletti e gingilli, come rivela la voce dialettale beddëbebbéddë, che sta alla base del soprannome e il cui senso è «cianfrusaglie e ornamenti del corredo femminile» (Rosaria Scardigno, Nuovo lessico molfettese-italiano, Mezzina, Molfetta, 1963, p. 80). Fa parte della compagnia anche u Spëcïalë (lo Speziale), che borbotta contro le ripetute vincite della padrona di casa. Potrebbe forse identificarsi col farmacista Tiberio Pansini (1840-1940), che nel 1862 aprì una farmacia in via San Gennaro, n. 14, facendo concorrenza al più anziano speziale Giuseppe Domenico De Gioia. Chiudono la galleria dei personaggi don Zérjë (don Sergio), un brontolone visibilmente stizzito per la sfortuna, e il flemmatico dom Béppë, indifferente alle vincite o alle perdite e sempre con la mente al buon mangiare. Si potrebbe pensare per lui al maestro di musica Giuseppe Peruzzi (1837-1918), ma è meglio non forzare la mano con ipotesi non sufficientemente documentate. Tra i termini dialettali disusati o poco noti, segnalo la variante quênë “cane” (v. 4), che si distingue dalla voce chênë, tuttora in uso, per la propagginazione fonetica dell’articolo u (u quênë). Interessante è anche l’espressione scì facénnë zappë e fëlèddë “far debiti e debitucci”, ignota alla Scardigno, che invece riporta l’analogo modo di dire scì facénnë zappë e zzéllë (p. 557). La zappë, oltre che il noto strumento agricolo, in senso figurato è un “grosso debito derivante da disordine o abuso economico”. La fëlèddë, a sua volta, è per traslato il “debituccio fatto per tamponare debiti più consistenti”, ma propriamente vale “filaccia, faldella, garza”. Al v. 18 si nota il sostantivo schëmbëdénzë “sconforto”, alla lettera “sconfidenza”, mentre al v. 19 si rileva il pronome personale antiquato mèëvë “me” per mèëchë, che trova un precedente nel volgare duecentesco méve. Vanno infine segnalati al v. 37 il participio passato ngapênnêtë “intabarrato”, denominale da capênë “gabbano, tabarro”; ai vv. 37, 43, 58 e 63 la preposizione articolata ao “al”, contrattasi nella forma attualmente in uso o; al v. 53 l’esclamazione Ebbé, Arònzë! “Beh, Oronzo!?!” nel senso di “non è giusto, non è corretto”, e al v. 67 la locuzione avverbiale a trascëlàunë “ruzzoloni, a catafascio”. I lettori interessati ad approfondire la conoscenza di questo arguto e sapido poeta potranno ricorrere utilmente a Vincenzo Valente, Pantaleo Nisio (1828-1888) poeta dialettale molfettese (in Aa. Vv., Molfetta nei secoli. Studi storici, a cura di G. Bellifemine, Mezzina, Molfetta, 1976, pp. 111-136); Marco I. de Santis, Versi inediti e rari di Pantaleo Nisio (in «Studi Molfettesi», n. 4, maggio-agosto 1997, pp. 67-82) e Id., Appunti sulla letteratura in dialetto del secondo Ottocento. Due poesie di Pantaleo Nisio (in «Rivista italiana di letteratura dialettale», Palermo, a. IV, n. s., n. 6, gennaio-giugno 2009, pp. 13

Autore: Marco I. de Santis
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