Il Covid mette in ginocchio la ristorazione
Se qualcuno di noi dovesse chiedersi chi in questa pandemia è più in difficoltà economicamente parlando, sicuramente la risposta sarebbe unanime: i ristoratori. Promesse di riapertura da parte del governo, denaro speso in plexiglass e altro materiale a causa del Covid, e entrate di denaro minime, quasi nulle. “Quindici” ha intervistato per i suoi lettori Alessia del Vecchio, una giovane lavoratrice in un ristorante/pizzeria di Molfetta che conosce e ci racconta le difficoltà che chi vive nel settore della ristorazione deve affrontare. I ristoranti fanno parte del settore più colpito dal Covid. Lei ne fa parte: quali sono i problemi maggiormente riscontrati? «Premetto il fatto che io sono una cosiddetta lavoratrice a contratto “a chiamata”, ovvero che non ci sono dei giorni fissi in cui lavoro, ma vengo chiamata in determinati giorni. Il problema principale è stato che in questo periodo io non ho lavorato per niente. Per fortuna, non essendo ancora autonoma, ma a carico dei miei genitori, questo non è stato un grosso problema, ma se io fossi stata una persona con una famiglia da mantenere, non ce l’avrei fatta. Il ristorante/pizzeria in cui lavoro è stato praticamente sempre chiuso in questi mesi. Inoltre, i sussidi che dovrebbero giungere dallo Stato sono inesistenti. In questo periodo ci sono stati degli “input” che lo Stato lanciava, che facevano credere ai proprietari dei ristoranti, che presto avrebbero riaperto i loro locali. Per questo motivo, tutti i ristoratori provvedevano a comprare le provviste dai propri fornitori, solo che alla fine anche questi sono stati acquisti e soldi sprecati. Altri soldi sono stati sprecati ovviamente nell’acquisto del materiale di protezione del personale, che alla fine non ha lavorato, ad esempio, quando io vado a lavorare, il mio titolare fornisce mascherine e igienizzante a me e ai miei colleghi. Contro tutti questi sprechi di soldi, abbiamo anche altri problemi, come ad esempio il fatto di aver diminuito i tavoli per aumentare il distanziamento: questo significa meno clienti e meno guadagno». Il governo ha fatto attrezzare i locali con plexiglass e disinfettanti ecc., poi però vi ha fatto chiudere. Crede che questo sia un comportamento corretto? «Come ho già accennato, credo che questo non sia un comportamento corretto: le persone al potere avrebbero potuto semplicemente dichiarare che non vi erano ancora le condizioni per poter aprire, senza dare false speranze ai ristoratori. In questo caso, lo Stato ha “illuso” il settore, promettendo di far riaprire i ristoranti durante le festività (come ad esempio a Natale), facendo quindi attrezzare i ristoratori di plexiglass ecc, per poi alla fine fare un passo indietro vietando di riaprire. Questo comportamento mi ha fatto pensare che il Governo volesse “mettere a tacere” le polemiche di chi appartiene al settore che, dall’inizio della pandemia, è stato più colpito, economicamente parlando: quello della ristorazione». Lei lavora in una pizzeria, queste ultime di solito guadagnano maggiormente la sera. Con la chiusura alle ore 18, quanti soldi perde mediamente una pizzeria? «Se devo parlare in base al ristorante in cui lavoro io, credo che ci sia stato un calo del guadagno almeno dell’80%. Il mio ristorante guadagnava specialmente la sera e nel weekend, in quanto a pranzo era aperto solo la domenica. I clienti sono davvero pochissimi, le occasioni in cui sono aumentati sono state quelle speciali come San Valentino, però il guadagno rimane quasi nullo. Bisogna fare una grande distinzione tra ristorante e pizzeria: il ristorante guadagna una parte del denaro a pranzo, ma le pizzerie guadagnano il totale del denaro a cena». Negozi aperti fino alle 21 (basta guardare gli assembramenti che si creano all’Ipercoop), ristoranti fino alle 18. Lo trova corretto? «Credo che questo non sia affatto corretto. Abbiamo notato che nonostante la chiusura dei ristoranti, i contagi comunque rimangono alti. Questo ci fa comprendere che non sono i ristoranti i focolai del Covid. Far aprire i ristoranti e far lavorare tutti in sicurezza è possibile. Per quel poco tempo in cui ho lavorato (nei mesi di agosto e settembre), ho notato la regolarità della situazione: vi era distanziamento tra i tavoli e tra le persone di uno stesso tavolo; noi camerieri ricordavamo ai clienti di indossare la mascherina appena si alzavano dal loro tavolo; si registravano nome, cognome e numero di telefono di un componente di ogni tavolo… anche nel caso in cui fosse capitata una persona positiva, sarebbe stato facile rintracciare le persone che erano presenti quella serata, e quindi circoscrivere i contagi. L’altro giorno mi è capitato di andare all’Ipercoop per un acquisto, e c’era veramente tanta, tanta gente. Allora mi chiedo: perché i negozi, luoghi in cui le persone si assembrano ogni giorno, possono essere aperti fino alle 21, mentre le pizzerie, luoghi in cui si rispettano le regole e, raggiunta la capienza massima di persone, non si permette più a nessuno di entrare (e questo permette di non creare assembramenti) devono chiudere proprio nell’orario della giornata in cui guadagnano di più?». Quando lei lavora, ha l’impressione che i tavoli siano abbastanza distanziati? Lei stessa riesce a lavorare in sicurezza con i suoi compagni? «Nel periodo in cui ho lavorato, io mi sentivo molto sicura. Il ristorante in cui lavoro è molto grande, quindi i tavoli erano davvero molto distanziati. Noi lavoratori abbiamo sempre rispettato le regole: io entravo al lavoro alle 17 con la mascherina, e la toglievo solo quando mi ritiravo la sera a casa. Nessuno di noi dipendenti si toglieva la mascherina. Inoltre, quando noi camerieri prendevamo le ordinazioni ai tavoli, molto spesso erano i clienti stessi ad alzarsi la mascherina per sicurezza, quindi il momento più rischioso era reso sicuro dalla volontà del cliente». Quando pensa che la situazione tornerà alla normalità, sia per i ristoranti, sia per la vita di ognuno di noi? «L’unico modo per tornare a lavorare, ma anche a vivere in sicurezza dipende dai vaccini. Bisognerebbe vaccinare molto più velocemente senza rallentare il piano vaccinale e vivere questo problema con più umanità, pensando meno ai profitti (mi riferisco alle case farmaceutiche), in modo tale che i vaccini arrivino più velocemente e si torni prima a vivere in sicurezza».