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Il Carnevale a Molfetta fra ‘700 e ‘900 Frammenti di storia
15 febbraio 2001

di Marco de Santis A Molfetta, come in molte altre città italiane, il Carnevale inizia il 17 gennaio al suono delle trombette di latta e di cartone, come annuncia il proverbio calendariale Sênd’Êndùënë: mêsckër'e ssùënë, Sant’Antuono, maschere e suono (S. Antuono è S. Antonio abate e non va confuso con S. Antonio da Padova). Il Carnevale si concentra in particolare nei giorni che vanno dal berlingaccio alla vigilia delle Ceneri, cioè da giovedì grasso a martedì grasso. Giorni caratterizzati da banchetti, canti, frastuoni, danze e gruppi mascherati, nei quali le maschere più caratteristiche tra le fanciulle del popolo erano non tanto quelle mutuate dalla commedia dell’arte, quanto le zingarelle, spesso accompagnate da un pulcinella o da altra figura maschile nei giri di questua. In cambio di arance, uova, fichi secchi, dolci e spiccioli recitavano zingaresche varie. Una di queste cominciava così: “Zëngarédda bagabbòndë, / vìën’a ccàsë ca t’abbòttë, / ca t’abbòttë dë fichë sëccatë, / mêccarùnë e strascënêtë…(Zingarella vagabonda, / vieni a casa ché ti rimpinzo, / ché ti rimpinzo di fichi secchi, / maccheroni e orecchiette…)”. Altri gruppi mascherati portavano il domino o la bautta e, fermando per la via soprattutto passanti di loro conoscenza o belle fanciulle casualmente in strada, recitavano in tono di sfida: “Mo pàssënë rë mmêsckërë a fròtt’a ffròttë: / ci téënë la bbóënë e cci lê mêla condòttë. / Qual’ è la faccë, nêm bùëtë sapè, / prëccè sòtt’o muccë nên zë póëtë vëdè! (Ora passano le maschere a frotte a frotte: / chi ha la buona e chi la mala condotta. / Qual è la faccia, non puoi sapere, / ché sotto la buffa non si può guardare!)”. Nel Settecento e nell’Ottocento, pur non potendo presumere di eguagliare lo sfarzo del patriziato, la gioventù popolare s’ingegnava ugualmente di trovare le sue forme di esibizione e divertimento: “I giovani del basso ceto – scrive Antonio Salvemini – solevano anche darsi molto moto nel concertare le loro maschere piacevoli e bizzarre; ed affine di rendere fastosi e brillanti i loro studiati progetti si vestivano con abiti antichi del medio-evo, alla turca, all’uso degli slavi o schiavoni, alla romana o in altre guise. Così vestiti percorrevano in varii crocchi le vie della città facendo mostra di loro stessi. Altri poi vestiti in modi del tutto capricciosi nei giorni festivi si divertivano a danzare ed a suonare nelle case dei loro parenti o degli amici. Nelle famiglie degli artigiani e dei contadini le giovanette vestite con grazia alla forese facevano svariate piacevolissime danze con nacchere e tamburelli sino ad ora tarda della notte”. Nelle case di conoscenti e parenti, in effetti, tra feste e balli carnevaleschi non mancavano le occasioni d’incontro tra i giovani e le ragazze da marito, che avevano così la possibilità di farsi notare, come suggerisce un vecchio proverbio: A Carnëvalë nu bbèllë spitë, a Ppàsquë nu bbèllë zitë, A Carnevale un elegante spadino (fra i capelli), a Pasqua un bel fidanzato. Tutto questo accadeva negli ultimi tre giorni di Carnevale, ma non si deve omettere qualche cenno sulla gastronomia. Dopo una domenica ravvivata da un banchetto a base di cannoncini (mêccarùnë dë zìtë), carne di maiale, frutta di stagione e dolci vari, il lunedì grasso per pranzo, nelle famiglie più legate alla tradizione, era ed è di prammatica la minestra verde in brodo, composta di sola verdura mista, dove fanno la loro comparsa cardi, bietole, cavolfiori, sedani, finocchi, carote e altro in un brodo fatto colla zampa di porco. A Molfetta “messer Carnovale” si chiama Tóëmë, che non è una maschera locale, come erroneamente qualcuno ancora ripete, bensì il Carnevale stesso sotto le spoglie del fantoccio ripieno di paglia destinato ad essere bruciato: Tóëmë dë pàgghjë, appunto. Martedì grasso, l’ultimo giorno della più sfrenata allegria, si mangiano orecchiette (strascënêtë) o maccheroni al ragù e le brascióëlë dë Tóëmë, grossi involtini col peperoncino, oppure costate di maiale arrostite e, per dolce, pizza di ricotta e sanguinaccio (u sênghënêzzë). Poi, a sera, si celebra il funerale del re dei Saturnali. Allora la coppia Carnevale-Quaresima compare unita nel vincolo coniugale: Tóëmë e la mëgghjéërë dë Tóëmë, Tomo e la moglie di Tomo, la vedova in gramaglie, col resto del burlesco corteo funebre, e il morto steso su un improvvisato cataletto (un carretto o una barella), così fissamente irrigidito, da dar luogo all’espressione ndravatë cóm’a Tóëmë, disteso come Tomo. La Quaresima, che compare per la prima volta in tale occasione, è la controfigura femminile del Carnevale o, se si preferisce, lo sdoppiamento del medesimo personaggio. I casi in cui si trovano insieme la Vecchia e il Carnevale sono indici di forme indubbiamente arcaiche. Spirato il moribondo, nelle usanze ancora in vita dal Settecento alla prima metà del Novecento, avevano inizio il farsesco funerale di Tóëmë e il ripetuto lamento della vedova: “Tóëmë mêjë, prëccè si mmùërtë? / Pên’e mmìërë nên dë mêngàvë, / la nzalàtë stavë ind’all’ùërtë, / Tóëmë mêjë, prëccè si mmùërtë? (Tomo mio, perché sei morto? / Pane e vino non ti mancava, / l’insalata stava nell’orto, / Tomo mio, perché sei morto?)”. A questo “pianto funebre” più arcaico (un tempo diffuso dalla Romagna all’estremo Sud), in altri gruppi mascherati, ancora nella prima metà del Novecento, la vedova alternava un altro burlesco lamento: “Mêdónnë, com’è statë, / com’è statë ca è mùërtë? / Cé ppéënë ca m’av’allassatë! / Nêm bëtèëvë mërì cchjù ssùbëtë? (Madonna, com’è stato, / com’è stato che è morto? / Che pena mi ha lasciato! / Non poteva morire più presto?)”. Una descrizione dei funerali di Tóëmë agli inizi del Novecento ci è stata lasciata dal demologo Saverio La Sorsa: “Il chiasso e la gazzarra durano tutto il giorno, e la sera sul tardi un gran numero di monelli, che suonano campane e battono freneticamente latte di stagno, in mezzo a fiaccole portano a seppellire «Toeme», cioè Carnevale, rappresentato da un bamboccio di paglia vestito da contadino, contro cui lanciano lazzi mordaci e insolenze; tutte le donne escono dalle case per vedere «Toeme», e lo salutano con improperi e col lanciargli torsoli e bucce”. Il corteo funebre terminava col seppellimento fittizio o col lancio in mare del pupazzo carnascialesco o, più spesso, con il bruciamento di Tóëmë. Nella combustione del Carnevale gli antropologi e gli storici delle religioni scorgono un rito della morte simulata di un essere soprannaturale in quanto spirito della vegetazione (James George Frazer) ovvero un “complesso drammatico” legato alle feste della primavera con funzioni di commemorazione o “riattualizzazione” dell’atto primordiale della rigenerazione del ciclo annuale e della vegetazione (Mircea Eliade). Ma non va escluso un più ampio ventaglio interpretativo sui significati collettivi, religiosi, politici, individuali e psicologici che il Carnevale può assumere, come opportunamente ha rilevato Peter Burke. Spente le ultime faville della combustione del fantoccio, si spegneva anche l’allegria carnevalesca, e già il pensiero correva alla penitenza e alle verdure del digiuno quaresimale: Carnëvàlë chjìnë dë dógghjë, óëscë la carnë e ccrè rë ffógghjë, Carnevale pien di doglie, oggi la carne, domani le foglie. (P.S. Per approfondimenti v. Dal carnevale all’ottava di Pasqua, in «Studi Molfettesi», n. 6-8, gennaio-dicembre 1998, pp. 11-40; Zingaresche pugliesi raccolte a Molfetta, in «Il Cantastorie», Reggio Emilia, a. XXIV, 1986), n. 21, pp. 20-23).
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