I bisbigli nella notte di Giovannangelo Salvemini
La Vita è una pièce, in cui l’uomo si dibatte tra ciò che può essere solo bisbigliato durante la notte, ma che spesso si rivela unica espressione di autenticità, e quanto si può urlare al mondo. Giovannangelo Salvemini, nella sua silloge prima, Bisbigli nella notte (Wip Edizioni, collana di Narrativa e Poesia SpazioTempo), offre voce a versi “che si incuneano nel silenzio imploso e cercano di ravvivare, con la freschezza della gioventù, le ombre della notte”, come scrive il curatore della collana Alessandro Lattarulo, docente universitario e scrittore. Giovannangelo Salvemini è un giovanissimo scrittore molfettese, nato nel 1990; laureando magistrale in giurisprudenza presso l’Università di Bari, coltiva, accanto all’arte di cesellare versi, la fotografia. Sue sono le immagini in copertina: Scritti sulle pietre, ipostasi dell’ambizione della poesia di sottrarsi al Triumphus Temporis; I pensieri camminano soli, emblema dei pindarici viaggi psichici cui la Musa giovanile lo conduce. “Vorrei sognare / per arrivare dove non vedo”, recitano i versi di un suo componimento. Introdotta dalla bella prefazione (La poesia dell’inesperienza ), ricca di riferimenti intertestuali, dello scrittore Renato Nicassio, la raccolta di Salvemini si dispiega nitida e si distingue per una sua baldanzosa eleganza. Non disdegna la rima e ambisce alla chiarezza comunicativa. È il brindisi di un giovanissimo che esprime il suo mondo con l’irruenta freschezza e la goliardica melanconia di chi non desidera essere ridotto al silenzio. E, quasi a conferirle autorevolezza, evoca costantemente i miti della letteratura, italiana e internazionale, quasi a sostenere che la propria voce, per quanto appena levatasi nel panorama letterario pugliese, a ben giudicarla, ha comunque anche sapore d’antico. Perché i morti coesistono al nostro fianco (“i morti / hanno cacciato nella cupola / del corpo mio”), ci ammoniscono alla vita (l’Hemingway in esergo) e a loro soltanto è riservato il privilegio di insegnarci sottovoce la follia della poesia. Per questo scorgiamo tanto D’Annunzio nelle liriche incipitarie, con la sua famosa passeggiata nel pineto insieme a Ermione segmentata tra Piove (magari con la mediazione di Moretti e Jovanotti) e Taci, e con i versi più belli della Sera fiesolana riecheggiati in Ti dirò come sia dolce il sorriso. Ma all’icona del vincente, del vate dalle parole reboanti, Salvemini affianca il suo polo antitetico, il crepuscolare Sergio Corazzini, desolato povero poeta sentimentale, che dichiarava di non sapere “che morire”. E la morte è un’ossessione che avvolge ogni cosa; il giovane Salvemini sembrerebbe voler ingaggiare una lotta corpo a corpo con la Signora con la falce, salvo poi domandarle scusa per aver tentato di esorcizzarla e passeggiare, come un’antica Sibilla, “scostando pietre e resti umani”, tra le tombe di San Miniato al Monte. E c’è il dolore, il cui emblema diviene la Madonna dello Stabat Mater; il clima delle processioni molfettesi conosce così una felice declinazione in questi versi: “Il cielo si oscura / le nuvole a gruppo, / la folla calpesta ogni piede / d’anima vivente, è Dio che passa”. E se anche Pirandello si affaccia prepotentemente in questo caleidoscopio di mondi, Salvemini, novello Moscarda, si scopre a fissarsi nello specchio, per cogliere nel “riflesso” della propria immagine uno spunto che l’induca alla “riflessione” e al “vedersi vivere”. Poi, torna a coltivare come una rosa la propria dolce follia melodica e individua nella Poesia, pur nel buio di un notturno persistente, la Stella Polare.
Autore: Gianni Antonio Palumbo