Giovanni Pierlugi da Palestrina e la musica dimenticata
In quel punto io nacqui alla musica, ebbi la mia natività nella musica infi nita, ebbi nella musica la mai natività e la mia sorte. Così Gabriele D’Annunzio annota nel Libro Segreto la folgorante esperienza che lo investì allorché, giovinetto, nella chiesa di Santa Maria della Vita in Bologna, per caso ascoltò un motetto di Palestrina, Peccantem me quotidie, recatogli non dalle prescritte voci ma dal tuono dell’organo. Quell’impropria, se non scorretta riduzione, bastò, tuttavia, a lasciare nel poeta un segno indelebile. Benché eccessive nella loro enfasi oratoria, le epifaniche parole del Vate off rono lo spunto per una considerazione estremamente attuale: oggi come allora, quando accade, è spesso casualmente che l’ascoltatore si accosta alla musica di Pierluigi da Palestrina, uno dei più alti musicisti italiani, sicuramente il maggiore del Rinascimento. Esclusa infatti dalla quasi totalità dei circuiti concertistici, “oscurata” dalla musica strumentale del Settecento e dell’Ottocento e, in campo vocale, dal melodramma, la polifonia rinascimentale italiana continua ad essere una “splendida sconosciuta” relegata al ruolo di “musica da chiesa” e vittima di inspiegabili pregiudizi. Un tale ostracismo non può che risultare incomprensibile a quanti considerino che la musica di Palestrina costituisce un momento fondamentale in quel processo di emancipazione della polifonia italiana degli aridi intellettualismi della scuola fi amminga. Nelle sue mani, quella che si risolveva in un puro gioco compositivo, basato essenzialmente su principi matematici e spesso carico di signifi cati e comunicazioni cifrate, diventa arte umana nel senso più pieno del termine. E’ con Palestrina che nasce quella cantabilità che si connota come tipicamente mediterranea e che informerà in modo più o meno manifesto la futura musica europea sia vocale sia strumentale. Una cantabilità profondamente ancorata alla parola e al suo signifi cato che tuttavia nel sapiente ed equilibrato ordito contrappuntistico si sublima in momenti di suggestiva e commossa spiritualità, tali da indurre un tenace assertore della musica strumentale come E.T.A. Hoff man ad assumere come parametro di musica assoluta proprio la polifonia del Cinquecento italiano in virtù della sua capacità di esprimere il profondo sentimento del divino e di dare all’uomo la suprema pienezza dell’esistenza. Figlio di un’ epoca non ancora contaminata da smanie di divismo, in cui i confi ni tra arte e artigiano erano tutt’altro che defi niti, Palestrina si confi gura come un artigiano del suono che dalla sua dimensione puramente umana e dall’applicazione quotidiana riesce a cavare la ricetta per conferire alla sua musica il carattere che forse più di ogni altro la rende eterna ed universale: l’assoluta essenzialità. Essenzialità della linea melodica. Essenzialità del colore (la monocromia dell’impianto a cappella è peculiare della scuola romana), essenzialità della struttura architettonica: tutto ciò concorre a determinare uno stile che fu presto considerato esemplare e che permise la creazione di una vera e propria scuola che ha in Luis de Victoria uno degli esponenti più illustri. In una cultura come quella odierna in cui la musica è ridotta sempre più a rumoroso bene di consumo e a veicolo di facili guadagni, forse non sarebbe inutile dedicare un po’ di attenzione a questo antico musicista-artigiano che con sublime semplicità sembra ammonire a fermarsi un’ attimo, a scendere un po’ più nel profondo, a capire che anche una nota, una sola, può voler dire tanto. Giuseppe Capotorti.
Autore: Giovanni Antonio del Vescovo