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Fede autentica, ma anche “pizzariedde” e “vènèzeiène” Ricordi della settimana santa d'altri tempi a Molfetta
15 marzo 2004

In passato, la Settimana Santa era considerata, coram populo, un periodo di purificazione, di misticismo, di contemplazione che portava un po' di pace nell'animo, un po' di luce allo spirito, un po' di serenità alla vita. In primis, le chiese erano spoglie di ogni ornamento, i riti intonati a mestizia, non si udiva più il suono delle campane, i paramenti dei celebranti erano violacei, le sacre immagini venivano coperte da un telo e, persino la radio trasmetteva solo musica sinfonica. Il credente si sentiva coinvolto in quei segni emblematici della passione e morte di nostro Signore, elevandosi dai quotidiani affanni alla confortante contemplazione del Cielo. Per tutta la settimana, nelle famiglie non si mangiava carne ma si consumava pesce fresco pescato dalle paranze o molluschi di vario tipo (polpi, seppie, totani, calamari) abbondanti nel periodo di Pasqua. Dice infatti un antico proverbio marinaresco: “U mèiese de mèsce fòere la chèmèsce (nel mese di maggio abbondano i molluschi e i pesci che vivono nella fanghiglia), in C. Tridente: “Lessico e Folklore della Marineria Molfettese”, ed. Mezzina 1996). Si usava pure mangiare pasta asciutta condita con alici salate miste a pane grattugiato e soffritto. Si preparavano, e solo in quella settimana, i gustosi taralli al seme di finocchio. Il digiuno e l'astinenza venivano osservati da tutte le famiglie e la loro inosservanza era considerata un grave peccato. I più praticanti della religione facevano i cosiddetti “fioretti”: una sorta di impegno o di rinuncia per se stessi o per gli altri. All'alba del Venerdì e Sabato Santo, dopo aver assistito all'uscita delle rispettive processioni, era tradizione consumare “u pizzariedde” e la “vènèzeiène”: il primo, ancora oggi consumato dai tradizionalisti, era uno sfilatino riempito di tonno sott'olio; la seconda era una tazza di cioccolato bollente che si gustava nei caffè del borgo antico. Dietro le processioni, venditori ambulanti vendevano per i bambini tarallucci zuccherati, che facevano bella mostra allineati lungo la saettia cioè un triangolo di legno sostenuto da una lunga asta. Quando le processioni del Venerdì e Sabato Santo percorrevano via Margherita di Savoia, i negozianti spegnevano le loro insegne luminose e abbassavano le saracinesche in segno di rispetto e devozione. A volte, particolarmente nel centro storico, si udivano grida di dolore e di disperazione al passaggio della Pietà, provenienti da donne oppresse da qualche loro dramma familiare. La statua di Cristo morto, durante la processione del Venerdì Santo, obbligatoriamente sostava nel Duomo, nella chiesa di S. Pietro, nella Cattedrale, nella chiesa di S. Domenico e dell'Immacolata, dove si recitavano alcune salmodie e si cantava il “Vexilla Regis Prodeunt”. Era consuetudine che, quando le processioni della Settimana Santa percorrevano il territorio di ogni parrocchia, i rispettivi parroci si affiancavano al Padre Spirituale dell'Arciconfraternita. Altra usanza, ormai scomparsa, era quella di adornare i Sepolcri delle chiese con piatti nei quali si facevano germogliare, alcuni mesi prima, semi di grano, lupini o lenticchie. I fasci dei lunghi steli venivano sistemati con nastri variopinti e portati nei Repositori. La veglia pasquale iniziava alle undici del sabato e, quando le campane suonavano a gloria per annunziare la resurrezione di Cristo, in Cattedrale si liberavano colombe in segno di pace e gloria per il Signore risorto. Con il passare degli anni ci sono state varie mutazioni, causate dal costume di vita che necessariamente si rinnova o dovute allo svecchiamento della Chiesa con l'avvento del Concilio Vaticano Secondo, iniziato da Papa Giovanni XXIII. Non c'è dubbio che la tradizione non scompare ma si rinnova. Anzi, conserva le testimonianze del proprio passato che è dolce ricordare nei giorni futuri: “Forsan et haec olim meminisse iuvabit” , direbbe Virgilio (Eneide, I, 203). Cosmo Tridente
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