Don Tonino quale significato ha avuto per te la nomina di presidente di Pax Christi? «Dal punto di vista umano l’ho accolta con molta sofferenza perché mi sono preoccupato del mio tempo: ho tanto lavoro qui in diocesi, ma d’altra parte mi sono reso conto che forse un servizio l’avrei potuto rendere e dopo ripetute insistenze, ho accettato l’invito che mi è stato fatto dalla Cei». Potrà essere di ostacolo all’attività della diocesi? «Non credo, anzi se ne avvantaggerà la stessa diocesi, nel senso che avendo la possibilità di guardare più lontano, di avere un’antenna ricevente più valida, più forte, posso favorire la mia gente per una presa di coscienza più vasta dei problemi, per aiutarla ad una visione di mondialità». Come far diventare la pace da un concetto astratto una realtà concreta? «Storicizzare nella prassi questi grandi principi, questi grandi ideali come quello della pace, occorre non lasciarsi prendere dalla smania dei grandi progetti. Un’espressione che mi colpisce molto è questa: pensare globalmente e agire localmente. Pensare globalmente tenendo sempre presente questo sfondo della mondialità, però l’azione dobbiamo svilupparla localmente, per cui anche un semplice gesto di accoglienza maturato qui sul posto, ha un grande valore per la pace. Nella prassi concreta, siccome sono chiamato a questo compito di presidente, devo indicare dei traguardi, dei valori, dei mezzi, per esempio l’educazione alla pace un grossissimo lavoro che si può fare a tanti livelli nei nostri gruppi ecclesiali, nelle nostre omelie, nelle scuole, nelle associazioni, in tutti gli incontri educativi. Poi l’obiezione di coscienza, il servizio civile, aprire gli occhi della gente sui problemi dei popoli sottosviluppati, dell’indebitamento dei Paesi del terzo mondo, qualcosa di pauroso». Il tema della pace può sembrare più grande di noi, di una piccola comunità cittadina che non può nulla contro le grandi potenze, per cui questo tema può sembrare lontano alla gente, o essa può pensare di non poter contribuire alla crescita della pace. Come pensi di avvicinare questa gente? «Sono convinto che la storia non viene fatta mai dal centro, dal capo, dall’alto, ma viene fatta dalla periferia, oggi si sta sviluppando nella coscienza una grande fiducia nei confronti della provincia, della periferia, perché tutte le rigenerazioni, come le generazioni non vengono mai dalla testa. Educare qui a Molfetta la gente alla pace, che poi significa alla giustizia, al rispetto, vuol dire contribuire a livello mondiale perché il discorso sulla pace vada sviluppato. Ricordo sul sagrato del Purgatorio la sera del 17 gennaio quando mi dicesti: ho letto quella lettera a Massimo e mi ha commosso. Non c’è giornale che non l’abbia pubblicata, in 4 lingue, ho ricevuto circa 900 lettere: un semplice gesto, un episodio del posto, ha una risonanza così grande, come quel servizio che fecero sul Tg3 e poi ripreso dalla rete nazionale. Ti rendi conto così che un piccolo gesto può diventare provocatore di attenzione globale». Prima parlavamo del servizio civile, tu sei contrario al servizio militare, sei antimilitarista? Mons. Bettazzi si è dichiarato obiettore fiscale, tu condividi questo tipo di battaglia? «Sì, è validissimo, soltanto che non deve essere fatto con arroganza. Se, per esempio, colui che fa l’obiezione fiscale, dice io ho fatto bene, tu sbagli a pagare tutte le tasse, io sono più giusto di te, più lineare, più limpido, allora sbaglia, perché è un arrogante. Tu non paghi le tasse fai benissimo se la tua coscienza ti dice che fai bene. Il tuo deve essere un segno, una freccia stradale, tanta gente si chiederà: perché sta facendo così? Allora va a vedere le motivazioni, perché l’Italia sta spendendo miliardi per le armi, perché esporta armi nei Paesi del terzo mondo, che con l’altra mano aiuta poi mandando 1.900 miliardi di lire. Ecco come avviene la sensibilizzazione, la promozione, la coscientizzazione, questi sono gesti paradossali, però chiaramente indicatori, segnaletiche stradali molto precise, che indicano veramente i valori, gli spazi dove questi valori della giustizia e della pace crescono e non possono essere assolutizzate, demonizzate le scelte contrarie». Servizio civile come invito a rifiutare sempre e comunque il servizio militare? «No, anche qui si pone come valore, non è un invito alla diserzione, al non servizio, ma invito ad un servizio più qualificato e più duro e più carico di segni, di valenze. Chi sceglie questo servizio, si impegna a lavorare con tossicodipendenti, handicappati, in mezzo ai ragazzi dei quartieri più poveri della città». Chi fa il servizio militare non può sentirsi anch’egli coinvolto nel discorso di servizio? «Sì, chi fa il servizio civile non dice: io sono più bravo di te compagno che stai in caserma, se no anche qui si tratta di arroganza. Però di fronte all’opinione pubblica, un giovane che non fa il servizio militare, fa opinione: la gente si chiede perché non fate il servizio militare? Quelli risponderanno: perché siamo in coscienza contrari all’uso delle armi, quali che siano, dalla rivoltella, al moschetto, alla bomba atomica, perché non è giusto uccidere per nessun motivo. Perché la guerra non potrà mai essere giusta. Credo che questo concetto del segno lo devo elaborare bene. Uno che fa la vita consacrata, che non si sposa, che si fa frate, certamente accetta il concetto della verginità consacrata, ma non dice male della scelta del matrimonio. Sono i due versanti che portano al padre. Chi fa il servizio civile non vuole giudicare l’altro, vuol essere solo un segno molto forte, molto profetico, paradossale anche». Il discorso della pace non rischia di essere strumentalizzato per esempio da alcune forze politiche, che organizzano manifestazioni di protesta coinvolgendo tutti gli altri, una confusione tra cattolici e comunisti? «Si strumentalizza il silenzio e la parola, ti strumentalizzano se parli e anche se stai zitto. Quindi tanto vale essere coerenti con la propria coscienza e andare avanti per la strada che si è scelta con dignità e con coraggio. Poi oggi ci stiamo rendendo conto di una cosa molto importante, che la discriminante non passa più fra Est e Ovest, ma fra Nord e Sud del mondo. Ci stiamo rendendo conto che sono guerrafondai sia l’Urss, sia gli Usa. È di coscienza pubblica, è di dominio pubblico. Ecco perché si parla della terza via. Io ho scritto in risposta all’invito ad un convegno: «Mi dispiace di non poter partecipare di persona, mi sembra che s svolga all’insegna dell’esordio, dal titolo “continenti e popoli oltre i blocchi”. Si cerca di praticare la logica di uscita dalla logica bipolare, il bipolarismo delle grandi potenze, transizione dall’età a alla politica che si fa prassi, passaggio dall’enunciazione dei principi alla storicizzazione della prassi. Se questi sono i punti nodali sui quali si articola l’intera iattura del convegno, mi convinco ancora di più che la categoria dell’esodo ne è il tema generatore, anzi l’espressione oltre i blocchi mi fa venire in mente un bozzetto biblico che forse non sarebbe male come orizzonte religioso dei vostri lavori: gli israeliti entrarono nel mare sull’asciutto, mentre le acque erano per loro una muraglia a destra e a sinistra. Chi sono oggi i nuovi israeliti se non i popoli poveri e terzo mondiali, le turl’in be dei diseredati e degli straccioni, le nazioni subalterne e non allineate, le genti oppresse e sfruttate che sotto l’urto del segno dei tempi, entrano decisamente nel mare e fra lo stupore delle muraglie di destra e di sinistra, trovano finalmente la strada della liberazione. Oggi il concetto deve essere: popoli ormai dovete prendere coscienza che soltanto superando i blocchi di destra e di sinistra trovate la vostra strada di liberazione. Ecco spiegato il protagonismo di tutti questi popoli che prima erano confusi. Oggi si può dire veramente che sul palcoscenico della storia si stanno avventando tutti questi popoli che prima erano subalterni con la loro dignità». Cosa vuol dire osare la pace? Inteso in che senso? «Il problema della pace è strettamente legato a quello della giustizia, mentre gridare pace, pace, pace, può essere simpatico, può essere anche un episodio di colore all’interno di un paese durante una bella marcia. Gridare giustizia, giustizia, giustizia, diventa più difficile, specialmente se si vuol dare nome, cognome, paternità e indirizzo alle ingiustizie che ci sono in un Paese. Ora, affinché la pace e la giustizia non si baceranno, come è scritto in un salmo, diventa solo retorico il discorso sulla pace. Siccome va abbinato al discorso sulla giustizia, ci vuole coraggio per affermare la giustizia». Cosa vuol dire essere vescovo oggi? «Vuol dire essere distributore di speranza, di molta fiducia, invitando a percorrere la strada che c’è davanti a noi, essere un esploratore. Episcopio etimologicamente vuol dire esplorare, testimoniare la parola di Dio con un’esperienza sulla propria pelle. Il miracolo più grande che Cristo ha fatto, è stato quello di far credere realizzabili le sue parole, la sequela che ha scatenato. Ecco perché dobbiamo sforzarci di mettere in pratica la sua parola, senza interpretazioni di comodo, così si comincia ad avere più fiducia e a vivere meglio. Il vescovo non ha né oro, né argento, non è un potente sulla terra. Né ha appoggi, né è colui che fa vincere i concorsi, né fa le raccomandazioni, non è uno che è ammanigliato col potere. È uno che la testimonianza la dovrebbe vivere condividendo la sua risposta, quanto la povertà e la sofferenza della gente». Che cosa manca alla nostra comunità? «La voglia di sperimentare questo di mettersi alla sequela di Gesù povero, a volte è un desiderio appannato da tante difficoltà e tentennamenti, però credo che alla lunga si libererà in termini più nitidi e più generali. Sono convinto che un giorno la nostra Chiesa sarà una comunità di persone che non farà affidamento sulla ricchezza, sul prestigio, nemmeno sulla storia gloriosa del suo passato, sul potere, ma farà affidamento su Gesù Cristo povero. Una Chiesa che non gioca le sue chance sul denaro o sugli appoggi. Alla nostra comunità cittadina manca la decisione di passare armi e bagagli sulla sponda della speranza. C’è troppa paura, si è troppo legati, manca l’audacia, non c’è manco intenzione. Manca la poesia, nel senso di fare, inventare, creare, fare affidamento sul futuro in termini di speranza, significa progettare, significa scavalcamento dei limiti, delle piccole barriere delle nostre paure, dei nostri condizionamenti culturali, capacità di tentare altre strade inedite. Per esempio in Argentina siamo stati accolti da quella gente, quante volte ci siamo guardati dicendoci: però noi non siamo capaci di fare così a Molfetta. Ci manca questa capacità di scavalcare le nostre consuetudini, abbiamo paura di inventare. Una processione deve andare sempre allo stesso modo, con lo stesso tragitto, con le stesse cadenze, con le stesse canzoni, con le stesse lentezze, e già ipotizzare che ci possa essere un altro, col tutto il rispetto per il tessuto culturale di un popolo, perché bisogna stare attenti ai segni dei tempi e dei luoghi. Ipotizzare che ci possa essere un altro modo di rendere onore al Signore e ai santi, già sembra atteggiamento da iconoclasti. Bernard Shaw diceva: voi pensate alle cose che ci sono e che esistono e dite perché io penso alle cose che non esistono e dico perché no». E’ possibile, in base alla tua esperienza di viaggio tracciare una differenza e un confronto fra Australia e Argentina? «In Argentina ho provato moltissima amarezza perché ho visto la gente che soffre. I nostri molfettesi soffrono perché non possono vedere la loro città da 30-40 anni, non hanno la possibilità economica di venire in Italia, anche per una volta, e soffrono notevoli ristrettezze economiche, vivono nella povertà. Poi portando lo sguardo al di là dei molfettesi, i cileni, quelli della Bolivia, che vivono accampati in un disagio unico, una povertà inconcepibile: se uno va a vedere con i propri occhi, e quelli sono fratelli nostri». Cosa dice un vescovo ad un emigrato molfettese che sente la nostalgia e poi si dibatte in difficoltà economiche? «Non coltivate sogni irrealizzabili, quello di non venirvene in Italia. Adesso accettate questa situazione e cercate anche di capovolgerla, amate l’Argentina perché qui ci sono i vostri figli, i vostri affetti, c’è anche la vostra casetta». Così non ti sembra di aver tolto anche la speranza del ritorno? Il realismo è importante. Quando qualcuno torna in Italia, trova una realtà diversa. Qualcuno che è tornato c’è l’ha detto: “io pensavo di trovare sotto la pensilina della stazione la stessa gente che mi ha accompagnato quando ero partito, parenti, fratelli, familiari che piangevano. Sono tornato in Italia e a Molfetta e non ho trovato nessuno. Passeggiavo per la città e gli unici riconoscimenti erano quelli delle chicche delle pietre, ma la gente no, nemmeno un saluto, eccettuati quei due, tre parenti”. Sentirsi veramente forestiero in patria è una sofferenza terribile. Ecco perché è inutile coltivare questi sogni che sono irrealizzabili, non sono giusti». Qualcuno ha detto che questo vescovo è itinerante, paragonandolo anche al Papa. Che significato ha questo tuo viaggiare? «Io ho fatto solo due viaggi in Australia e in Argentina e dico soltanto questo: che un giorno la storia ci dirà che questi viaggi li abbiamo fatti troppo tardi. Ho trovato quelle chiese più piene di molfettesi di quante non ne trovi il giorno di Pasqua nella mia Cattedrale, durante la messa solenne. Una critica del genere se la sentissero i molfettesi emigrati, li colmerebbe di amarezza ulteriore. Allacciare questi rapporti umani, sentirsi messaggeri di speranza. Manderò loro “Luce e vita”, lì fanno anche le fotocopie che si scambiano le varie famiglie. Non sono andato a fare il turista, mi sono affaticato come i periodi più intensi qui a Molfetta. Sono andato di casa in casa a trovare la gente in situazioni penose». È vero che il vescovo ha pianto? «È impossibile non piangere quando vedi queste cose. È una cosa penosa». Cosa è un emigrato, tenuto conto delle due diverse esperienze l’Australia ricca e l’Argentina povera? Cosa si dovrebbe fare per loro? «Se vogliamo avere un’immagine dei nostri emigranti di 30-40 anni fa , basta guardare un marocchino oggi. Sono 800mila con una legge che fa schifo. Come mai non riusciamo a capire noi queste cose che abbiamo subito sulla nostra pelle l’emigrazione? Inviterò una decina di questi musulmani a messa, perché vivano quest’esperienza di essere accolti, che non si riduca solo alla messa. Il nostro emigrante oggi è un uomo continuamente segnato da questa maschera di mestizia, l’ho visto anche in Australia dove stanno benissimo». Cosa ti è rimasto dentro del viaggio in Argentina? «Un’immagine, anche se non traducibile in poche parole. Sono entrato in una favelas, una di queste case squallide, c’erano i 12 figli di una donna di 30 anni, una casa dove non c’è niente, né panchette, ho visto su un tavolino un’unica cosa: un libro e un paio di occhiali. Ho guardato il libro era la sacra Bibbia. Ho chiesto: “signora, lei legge la Bibbia?”. È mi ha risposto: “è l’unica consolazione per la nostra povertà”. Poi quando sono uscito, era un meriggio freddo, primavera incipiente, c’erano dei bambini scalzi che levavano gli aquiloni in un cielo splendido. Ecco credo che quell’immagine mi resterà sempre impressa nel cuore: avevo l’impressione che quegli aquiloni fossero stati ritagliati sulle pagine del Vangelo, mi sembravano annunci di speranza. Coltivo nel mio cuore quell’immagine che mi dà più coraggio e più dolcezza. Io sono convinto che verranno tempi migliori per l’Argentina, perché è una terra ricchissima e quando le condizioni di giustizia saranno veramente le condizioni buone, questi nostri fratelli che stanno lì, avranno anche la possibilità di vivere a misura d’uomo»
Autore: Felice de Sanctis