Recupero Password
Don Tonino Bello: Vuoto di potere?
15 aprile 2010

Caro direttore, anche quest’anno hai voluto la mia complicità nella ricerca di un testo da proporre ai lettori di Quindici per far memoria di don Tonino Bello dalle pagine del giornale, nel 17° anniversario della sua morte (20 aprile). Al solito dovevo provare a trovare una pagina che potesse legarsi all’attualità. Ti propongo un testo scritto da don Tonino nel 1984, da lui titolato Vuoto di potere? ora in “Sud a caro prezzo”, edizioni la meridiana. Perché l’ho scelto? Credo che uno dei nodi di questo tempo sia non sono il valore ma soprattutto il signifi cato che diamo alla parola “potere”. No, non penso al potere che hanno gli altri ma a quello che ognuno di noi esercita nel proprio piccolo. E’ vero: c’è chi poi è chiamato, eletto, indicato per esercitarlo in ambiti incisi per la vita comunitaria. Qualcuno lo fa anche per vocazione o perché ha talenti da leadership. Ma c’è un potere che abbiamo tutti, singolarmente. Perché ognuno di noi “può”. Dal rapporto che abbiamo con il nostro potere penso derivi il nostro giudizio, la nostra attesa o pretesa sul “potere” degli altri. Su quello che “possono” gli altri. La diff erenza che don Tonino fa tra “vuoto di potere” e “vuoto di servizio” mi sembra una rifl essione interessante. Ci manca l’acqua nella brocca. Il catino è frantumato e in giro non si trova più un asciugatoio. Possiamo fare qualcosa per rimediare? Ognuno può. Perché ognuno è responsabile del “potere” che ha. Elvira Zaccagnino Vuoto di potere? Me lo disse, é vero, con le migliori intenzioni. E forse non c’era nelle sue parole tutta quella prevaricazione che la frase nella sua crudezza conteneva. Fu il primo giorno del mio ingresso in diocesi. Un amico sacerdote, in una eccedenza di zelo, mi spronava a entrare subito in azione, perché nessuno dovesse avvertire “vuoti di potere”. Rimasi visibilmente contrariato, come vescovo ancora fresco di unzione, erano proprio quelli di creare “vuoti di potere”: almeno nella mia vita. Con quella frase, invece, mi vedevo ridotto al rango di barattolo, con un’etichetta di classe. Magari con lo stemma. Ma sempre barattolo: destinato a contenere gli ingredienti del piglio autoritario, una forte dose di sicurezza decisionale, una discreta concentrazione di furbizia diplomatica, e un pizzico di improntitudine che fosse la traduzione formato”salsa” del classico pugno di ferro nel guanto di velluto. Per un attimo avvertii il fascino di certe nomenclature d’ordine: rigare dritto, avere idee chiare, saper bene quel che si vuole, qui non si scherza, mettere alla frusta... Vidi messi in crisi tutti i discorsi che in passato avevo sostenuto su autorità come servizio e autorità come potere. Mi chiesi se questi discorsi continuavano ad essere validi per me, ora che ero divenuto vescovo, o se dovevano servirmi solo nelle prediche. Mi interrogai se fosse prudente sostenere da “uffi ciale” teorie ascetiche che avevo seguito da “caporale”, e giunsi a domandarmi se nella visione evangelica la “prudenza della carne” non avesse qualche diritto a controllare la libertà dello Spirito perché, abituato a soffi are dove vuole, non facesse pazzie o commettesse intemperanze. Io non so se i venti mesi (6 anni) del mio ministero episcopale abbiano negativamente risentito di queste tentazioni del primo giorno. Può darsi. Perché l’anima del despota ci dorme sempre dentro, anche a nostra insaputa. E non so neanche se il “suaviter”, abbastanza percettibile (a quanto dicono) nel mio stile, non sia un’astuzia raffi nata per far passare meglio il “fortiter” delle mie inconsce aspirazioni di dominio. So certamente una cosa: che si va radicando in me, almeno a livello teorico, la convinzione che, tra le insegne pontifi cali, il Cerimoniale “episcoporum” dovrebbe prevedere, oltre all’anello, alla mitra e al pastorale, anche una brocca, un catino e un asciugatoio. E non certo per esigenze di copione o perché la Chiesa “del grembiule” sia una immagine di più sicura presa emotiva. Ma perché é l’immagine che meglio esprime la regalità della Chiesa, per la quale, come per Cristo, regnare signifi ca servire. In questo si esprime la sua autorità: lavare i piedi ai fratelli, perché, ristorati da un lavacro d’amore, si mettano con gioia alla sequela di Gesù Cristo, e il loro cammino sia più spedito, e le cadenze del loro passo assumano il ritmo della speranza. Lavare i piedi alla gente e, poi, lasciarla andare. Ci penserà il vento dello Spirito a condurla sui sentieri della “sequela”. No. Non é il vuoto di potere che fa paura. E’ il vuoto di servizio. E’ il vuoto che si sperimenta quando la brocca é vuota d’acqua, il catino é frantumato, e, in giro, non si trova più neppure un asciugatoio.

Nominativo  
Email  
Messaggio  
Non verranno pubblicati commenti che:
  • Contengono offese di qualunque tipo
  • Sono contrari alle norme imperative dell’ordine pubblico e del buon costume
  • Contengono affermazioni non provate e/o non provabili e pertanto inattendibili
  • Contengono messaggi non pertinenti all’articolo al quale si riferiscono
  • Contengono messaggi pubblicitari
""
Quindici OnLine - Tutti i diritti riservati. Copyright © 1997 - 2024
Editore Associazione Culturale "Via Piazza" - Viale Pio XI, 11/A5 - 70056 Molfetta (BA) - P.IVA 04710470727 - ISSN 2612-758X
powered by PC Planet