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Dialetto e soprannomi, alla memoria dei maestri calzolai
15 gennaio 2006

Alla memoria dei maestri calzolai, che forse i benevoli lettori ricordano, era associata la rievocazione d'alcuni soprannomi nella categoria, che soppressi, per non pretendere uno spazio eccessivo dalla cortese redazione. Ho pensato di riprendere quel ricordo, per farne un discorso un po' più generale, che forse soddisfarà la curiosità d'una parte almeno dei lettori, probabilmente la più, come me, anziana. La vita di paese ha avuto sempre una consuetudine che al ricordo mi risulta cara, certo perché associata ai “begli anni” e al “bel tempo che fu”. Non voglio mitizzare tal “bel tempo”, perché ogni persona lo trova nella propria esistenza ed esso è il mondo in cui s'è svolta l'età sua più fresca ed ingenua. Io trovai nel mio la consuetudine della designazione delle persone fatta con l'uso dei soprannomi, uso che dico latinamente (ma non in senso retorico) agnominazione. Ce n'erano di leggendari legati a mitici personaggi, come il banditore pubblico, detto o “Garibbàlde” per la sua persistente impersonazione della figura risorgimentale o “chémmìsa lónghe”, o “Steppìedde”, di cui però ignoro l'attività e la ragione della fama. Ma anche la vita più pratica faceva riferimento alle persone mediante l'agnominazione. Una merciaia di via Giaquinto per esempio era detta “Capabiénghe” (o “Càpa biénghe) certo per la sua canizie, forse precoce. E nessuno di noi minori, ma forse anche dei maggiori, conosceva i veri nome e cognome. C'erano agnominazioni che erano circondate da un'aura di mistero, perché erano pompose, senza che noi minori ne sapessimo la ragione, non avendo assistito al fatto. Un'impressione di favola suscitava il soprannome della “Regina del mare”, una gioielliera che esercitava in corso Margherita e in fanciullezza era stata insignita di quel titolo nella festa pubblica dello sposalizio con il mare. A volte per indicare una persona il nome personale, anche in forma abbreviata sostituiva il cognome: è il caso d'un rinomato merciaio di via Ragno chiamato “Vendùre” (da Bonaventura; cognome Cervellera). C'era anche l'uso d'abbinare nome personale e merce venduta, come all'angolo corso Umberto con via Amedeo “Corradìne de re 'rradie” venditore/tecnico d'apparecchi radio, valvole per essi, lampade e bombole di gas (ragione per la quale poteva essere chiamato “Corradìne d'u gas”). Oppure avveniva che una persona nota fosse il riferimento per i suoi parenti: per esempio “u fìgghie de Martamangìne”, una figura d'uomo a dir poco curiosa che insieme con la propria famiglia conviveva con una cartolaia nel centro del corso Umberto: appunto Marta Mancini sua madre. A volte noi ragazzi per il suo aspetto gli applicavamo un appellativo poco onorevole. Quella vecchietta non gradiva le cortesie moderne, perché a chi le diceva “scùse” (scusa) per introdurre una richiesta non gradita, diceva ruvida: “Cé scùse e scùse, ci stóeche a cusì” (Che scusa e scusa, se sto cucendo). Infatti ella impegnava le pause del commercio con lavori di cucito o maglia. I ragazzi, che svolgevano una commissione dalla merciaia suddetta, ripetevano come vocativo il soprannome detto da chi affidava la mansione, quindi dicevano: “Capabiénghe, à ditte mammà, dèmme né pézze di fresìne” (una matassa di fascetta per guarnizione). Tal consuetudine agnominativa creava qualche risentimento. E' il caso d'una donna, di cui non ricordo lo stato civile e l'attività, né la causa per cui la si agnominasse “Spereduàle” (o “Spreduàle”, cioè donna di particolare devozione religiosa, come potevano essere le addette alla catechesi dei nuovi comunicandi). Un minore sarebbe andato da lei, appellandola appunto “Spreduàle”, e lei avrebbe reagito così: “Spreduàle e témboràle e re fésse de re mémme lóere. Vonne re mémme lóere a chelecquàsse che le prìevete e venghene a dìsce 'ddò spreduàle” (Spirituale e temporale e le fesse delle loro madri. Vanno le loro madri a letto con i preti e vengono a dire a me spirituale). Come in ogni altra, nella categoria sociale dei maestri calzolai erano in voga i soprannomi e mi piace riferirne uno alla fine di questa rassegna, che è “prezioso” per i contenuti “storico-linguistici”. Riferisco i soprannomi con il rispetto e insieme l'affetto con cui si carezzano ricordi della prima età. E, per rimuovere ogni sospetto di parzialità o di sfregio, comincio con il soprannome con cui furono designati, ma per breve tempo, i miei ascendenti: “Rósedecrìste” (Rosa di Cristo), pare per una particolare devozione nicchiale d'un'ava di mio nonno, mastro Battista, figlio di quel mastro Nilo, costruttore edile, che edificò intorno allo spazio, che è piazza Mentana. Mastro (Giovan) Battista non seguì l'arte del padre, ma fu, divenendo capostipite di tre generazioni di mestiere, maestro calzolaio, per giunta specializzato ortopedico, e andò più d'una volta negli Stati Uniti a prestare con successo la sua opera specialistica soprattutto nel settore dell'equiparazione di gambe per mezzo scarpe altamente zoccolate. Si stabilivano quasi blasoni per mezzo agnominale, perché alcune famiglie si fregiavano degli agnomi tradizionali. Così la madre d'un mio compagno di studi ginnasiali e d'allora amico per la vita diceva quasi con orgoglio d'appartenere ai “Cóppelaccappìedde” (Coppolacappello?). Tra i maestri calzolai ricordo solo quattro soprannomi e anche le persone designate con essi. Ma ne taccio i nomi, non essendo certo di non offenderne i discendenti, sebbene io ne parli con tutta simpatia e nostalgia umane. Tre soprannomi su quattro si riferivano a difetti fisici. Era detto “Bececlétte” per una grave deformità ai piedi uno, la cui deambulazione richiamava il movimento fatto per attivare la pedivella d'un biciclo. Emigrato, conobbe nella sua dimora in terra straniera l'atroce disgrazia della perdita d'un figlio giovinetto. D'un secondo maestro calzolaio non so spiegare la composizione e la causa del soprannome: “Mémmérrìzze”. Un terzo era agnominato per un altro difetto deambulatorio. Claudicava in modo ritmico sì, da suggerire all'ironica “malvolenza” (che dagli stessi utenti era volta a benevolenza e simpatia) il battere ritmico d'un tamburo: “T(e)rezùm”. Da adulto conobbi qual compagno di partito un suo figlio, che, pur non avendo il difetto paterno, ne portava il soprannome. Ma quello che più sollecita è il soprannome d'un artigiano, che per un'accentuata torsione del collo e del capo, inclinati rispetto alla linea delle spalle, “fruiva” di ben due soprannomi. Uno più facilmente intuibile: “Capetùerte” (Capotorto). L'altro, “Capachinése” (o “Cap'a chinése”), ha bisogno di spiegazioni. Come tutti sanno, un tipo d'inchiostro usato nella scrittura artistica, su pergamena, o nel bozzetto è detto inchiostro di China per la sua provenienza, la Cina. Questa terra era ignota agl'italiani, che la conoscevano solo per le relazioni di viaggio e commerciali delle “potenze” marittime coloniali, tra le quali il Portogallo, la Francia e la Gran Bretagna. Nelle lingue di questi tre paesi il nome della Cina è scritto con l'acca (China, Chine, China). Perciò nella lingua italiana esistevano le parole China (Kina) e chinese (kinese). Ancora in un romanzo, per esempio, di Svevo della fine del 1800 è leggibile l'aggettivo. All'inizio del secolo XX l'Italia ebbe un “pezzo” di Cina, il Tien-tsin, dove erano mandati anche i giovani della leva militare. E con soldati d'occupazione o di leva, diplomatici e commercianti venivano in Italia i prodotti dell'estremo oriente: drappi, statuette, vasellame, ventagli... Ancora negli anni 50 potevo maneggiare un figurato servizio di porcellana per tè. Tra gli atteggiamenti più caratteristici delle figure umane d'estremo oriente era quello (meditativo) delle testa e del collo inclinati. Ecco perché del maestro calzolaio si diceva che avesse la “càpe” alla “chinése”. Antonio Balsamo
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