Corrado Giaquinto e Filippo Cifariello” al Museo Diocesano
Ha rappresentato un momento significativo per la città, e non solo, la mostra allestita presso il Museo diocesano di Molfetta, sotto la cura scientifica del professor Gaetano Mongelli. Inaugurata con interventi dello studioso stesso, del Direttore del Museo diocesano, don Michele Amorosini, e di S. Ecc. Mons. Domenico Cornacchia, Vescovo della Diocesi, l’esposizione è stata dedicata a due straordinari artisti figli della nostra città, Corrado Giaquinto e Filippo Cifariello, con l’apporto di nuovi inediti e contributi. L’allestimento, predisposto lungo due sale del Museo, è puntellato dalle biografie degli artisti e da note critiche, entrambe opera di Mongelli, curate con acribia e capaci di affrontare, in maniera sintetica ma precisa, questioni di datazione, intervenendo anche sui possibili modelli delle tele e cesellando deliziose ekphraseis. Gusto scenografico e delicata ricerca della bellezza sembrano connotare le opere di Giaquinto. Si va dalla preziosa matita e inchiostro grigio acquerellato su carta bianca raffigurante l’Allegoria della Temperanza alla potenza drammatica di San Nicola che soccorre i naufraghi, presente in due varianti. Alla tela della Pinacoteca di Bari, infatti, è affiancato per l’occasione “un modelletto inedito”. Molteplici risultano gli elementi di fascino: l’imponenza del patriarca, che sovrasta il flutto, quest’ultimo teso a donare una base di verde ghiaccio, impreziosita dalle candide cromie dei frangenti; la luce che aureola la Vergine trionfante e si riverbera sul monaco biancovestito; la torsione dei corpi dei naufraghi, che conferma la tendenza dell’artista alla cura del dettaglio, come avveniva per la figura muscolosa della tela di Teodosio penitente. Colpisce la Medea in fuga; alla drammaticità insita nel mito subentra un notturno lunare in cui tutto sembra adempiuto. Nei bambini sgozzati, giacenti alla sinistra della madre che troneggia al centro, rivivono suggestioni – come ben evidenziato da Mongelli – della Strage degli innocenti di Guido Reni, ma la tragedia sembra ormai lontana, proprio come la fiamma che la maga attizza con una quiete olimpica, esaltata dal candore delle vesti e dal turchese del manto. Tutto sembra insomma trascolorare in una fiaba mostruosa, in cui il sentimento è attutito e il Male resta in agguato nell’anestetizzazione della coscienza. Ci affascina molto anche il dipinto del Baccanale, a proposito del quale il curatore, magistralmente, ravvisa affinità tra l’icona di Dioniso e le modalità usualmente adottate da Giaquinto per la rappresentazione del Cristo morto. Intorno infuria la danza, che vibra nel dinamismo della figura femminile sulla destra, il cui movimento è richiamato dall’enigmatica figura in ombra. Bacco, avvolto in un manto corallo, sembra adagiarsi, vinto dall’ebbrezza, forse preda di un’improvvisa malinconia, germogliata dalla subitanea consapevolezza del perenne fuggire del Tempo. E veniamo a Cifariello e al suo talento di pescatore d’anime. Nella Testa del marinaio napoletano, il sorriso è ben diverso dall’ironia dell’uomo di mare di Antonello da Messina, che ha ispirato Vincenzo Consolo. Sembra che, in questa “scultura dal gusto verista e dialettale”, baleni la consapevolezza del Forestiere della Vita, che s’ingegna e s’adopera per ingannare l’esistenza stessa e i suoi infiniti accidenti. Estremamente espressiva la resa di Un corvo, esempio di “arte umanitaria”, nel momento stesso in cui segnala, con lucida ironia, la disumanità di certi usuali rituali (è rappresentato un “prete che, seduto ai piedi di una bara, è in attesa del compensoper il funerale appena officiato”). Grande capacità di penetrazione psicologica rivela il Ritratto di Madame Vera Gourian, con la compostezza del volto muliebre non più giovanissimo, ma non privo di austera bellezza e di decoro (elemento che traspare in ogni dettaglio: si pensi al particolare della collana). Diversa è la Cocotte di seduzione androgina, soggetto di una terracotta ch’è un trionfo di increspature, quelle delle pieghe della mantella, delle singole ciocche che incorniciano un viso a suo modo sfrontato. Ingegnoso il suo accostamento all’Edile (modello preparatorio per la prima volta in mostra), nudo virile (ma con le pudenda adeguatamente celate!) che, realizzato in epoca fascista, sembra rinverdire i fasti dell’antica Roma, ma senza troppa convinzione. Negli arti inferiori un accenno forse di posizione da ponderazione, ma le braccia incrociate denotano l’attitudine astratta di chi paia assistere a uno spettacolo.
Autore: Gianni Antonio Palumbo