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Cammino di formazione di un giovane d’altri tempi
15 novembre 2016

Vi riproponiamo uno scritto interessante di Giovanni Minervini, allievo e amico di Gaetano Salvemini, un inedito pubblicato da “Quindici” nel settembre 200, inviato dalla moglie Liliana Gadaleta. Si tratta del cammino di formazione di un giovane d’altri tempi. Oggi, nel deserto politico-culturale, nell’assenza di Maestri e di modelli di riferimento, questo percorso costituisce un esempio di qualità e livello, rispetto al deserto attuale. Cara Signora, caro Ingegnere, questa è una lettera che avrei dovuto scriverVi da molto tempo; che portavo dentro di me e che non riuscivo a tirar fuori, non so se per pigrizia o eccessivo pudore. Ma le ultime foto di Salvemini, da Voi gentilmente inviate, mi hanno spinto a pagare questo debito di riconoscenza verso Voi ed il maestro scomparso. Attraverso la lettura delle opere salveminiane, ognuno secondo l’intelligenza e la cultura che ha, si forma un giudizio personale, che, forse, potrà coincidere con quello degli altri. Ma vorrei parlare di Salvemini, il quale io conobbi attraverso i ricordi e le testimonianze di parenti ed amici, ed infine con l’incontro personale, e parlarne proprio a Voi che avete avuto la fortuna di vivere a lungo con lui e che perciò potete capire, meglio degli altri, i sentimenti che seppe suscitare in me. Forse Vi sottrarrò un po’ di tempo, ma voglio sperare di farVi cosa gradita. Salvemini, questo nome di quattro sillabe, che io a cinque anni circa, imparai a conoscere ed a pronunziare, allorché mio nonno paterno, salveminiano fin nelle midolla, sollevandomi sul tavolo da pranzo, come su un palcoscenico, mi faceva cantare una piccola filastrocca che ancora ricordo: “Il ventitré ottobre millenovecentrotredici – quel porco di Pansini – faceva il camorrista. Viva Salvemini – viva Salvemini – viva il professore – dell’università”. Ed io, compiaciuto e della canzoncina, e dei visi commossi dei parenti che mi facevano coro, (Salvemini era scappato via dall’Italia da poco tempo: ed io l’ignoravo) non riuscivo a capire quale interesse mio nonno ed i parenti tutti, provassero ad ascoltarmi. Ricordo chiaramente, facevo allora la quarta elementare, di aver avuto tra le mani, una bella fotografia di Salvemini, donatagli da una mia zia. La portai a casa, come una reliquia, la feci vedere a mia madre, e da lei mi feci dire tutto, tutto ciò che sapeva di Salvemini. Più stimolavo mia madre, e più lei tirava fuori dalla sua memoria, come da un vecchio ripostiglio, svariati, infiniti ricordi salveminiani. Questa era la stanza (la mia stanza da studente) in cui dormiva Salvemini; questo il posto (nello studio) che occupava di solito Gaetano (così lo chiamavano in famiglia) quando si intratteneva con gli amici. Da questo balcone (nella sala da pranzo) parlò ai molfettesi dopo la vittoria riportata nel 1914 al consiglio provinciale. Il mio bagaglio di notizie salveminiane aumentava così, di giorno in giorno. Contento e soddisfatto, custodivo religiosamente quei ricordi e quella vecchia foto, ed all’occorrenza ne parlavo ai miei amici più intimi, non permettendo loro che facessero apprezzamenti o critiche; anzi scattavo quando costoro facevano considerazioni fuori luogo sull’uomo che avevo cominciato ad amare, così come un cattolico che sente dir male della Vergine. Fu a dodici anni, facevo allora la seconda ginnasiale, che mi capitò un fatto strano. Ave-vo avuto a scuola lo schedario della biblioteca. Nel leggere i titoli dei libri, sbirciai, con grande gioia, un nome con asterisco segnato a fianco (non ho capito il perché): Gaetano Salvemini – La rivoluzione francese (1788- 1892) – 3ª edizione – Signorelli Milano. Soddisfatto di questa scoperta mi affrettai a riempire la scheda del prestito. E giacché il libro poteva essere dato in lettura soltanto agli alunni del liceo, feci firmare la richiesta anche della mia insegnante di italiano (la quale, lo seppi molto tempo dopo, era stata alunna di Salvemini all’Università di Firenze). La maestra, sorrise, senza che io capissi il perché, ed affidò al bidello le richieste di tutti gli alunni. Il giorno dopo, fui chiamato dal bibliotecario, che era un fascista, e che fascista (costui finì la sua carriera come preside a Lodi; anzi mi dicono che si sia rivolto a Salvemini per ottenere da lui uno scritto da far pubblicare sull’annuario scolastico, per festeggiare il centenario del liceo) il quale, nel consegnarmi il libro, con un sorriso sarcastico, che non ho più dimenticato, non solo volle sapere il perché di quella richiesta, ma nel congedarmi, mi disse: Tu sei Minervini, Minervini, nipote di Giovanni! Non dissi nulla dell’accaduto ai miei genitori, però da quel giorno, il nome di Salvemini, rimase fisso nella mia mente come un chiodo. Ora, volevo sapere tutto di questo uomo; perché era andato via dall’Italia, perché i molfettesi (i vecchi specialmente) lo ricordavano religiosamente. Mi raccontavano per esempio, che le donne della città vecchia conservavano gli scapolari con le foto di Salvemini come facevano per i santi protettori. Ed i più anziani, d’estate, in periodo di siccità, quando tardava a piovere, esclamavano: “Cure sénde Salvémene ne la dave né saziata d’acquel” (quel santo Salvemini così ci desse acqua in abbondanza!). Cominciai poi a rintracciare i vecchi salveminiani. Ricordo un modesto verniciatore, vecchio socialista, che prima di morire mi affidò gelosamente i tre volumi su “Le elezioni di Molfetta”. Conobbi poi alcuni braccianti, che mi raccontavano ricordi caratteristici sulle elezioni del 1913. Anzi uno più arguto, aggiungeva che nel trovarsi a lavorare con padroni pansiniani (cioè antisalveminiani), il loro segno di riconoscimento era: “evviva eccetèra!” (cioè non nominavano Salvemini, per evitare le ire dei padroni contrari al nostro). Salvemini aggiungeva un altro con enfasi, quando faceva “la circonferenza” (conferenza-comizio) parlava alla borghese (non con linguaggio dotto, ma in modo accessibile a tutti). Si aggiunsero poi i fratelli Nuovo, qualificati artigiani, Corrado Visaggio, integro ed onesto amministratore, Angelo Gadaleta, sindacalista coi fiocchi. Infine il rag. Sergio Azzollini che nel 1924 aveva avuto il coraggio di sfidare il fascismo al potere presentandosi come candidato al Parlamento nella lista del Partito Socialista Unitario, e l’avv. Nicola Altamura, amico di Salvemini all’università di Firenze, il migliore amministratore che abbia avuto la sezione Socialista di Molfetta. Ma l’uomo che di Salvemini mi raccontò tutto nei più minuti particolari, fu Giacinto Panunzio, mio professore di francese in quinta ginnasiale (1935-36), ferventissimo salveminiano. Per un decennio circa, ogni giorno mi incontravo con lui sul porto, anzi quando presi maggiore confidenza, andavo a trovarlo a casa sua. Colà conobbi altri amici più giovani di me (Finocchiaro, Gadaleta Stefano, Saverio Tattoli, Picca, Nuovo). In casa Panunzio (1938) familiarizzai con l’ing. Vincenzo Spadavecchia, raro esempio di onestà ed altruismo, l’unica persona che a Molfetta conoscesse tutto, dico tutto, anche pubblicazioni estere, sulla letteratura marxista. E per completare la serie, tramite il prof. Panunzio m’imbattei in un vecchio amico di mio nonno: il “romantico” Alessandro Guidati, che era stato nelle giornate del 1898 uno dei più audaci organizzatori. Anche Nicola De Ceglie, il famoso “cane in collo” noto “mazziere pansiniano”. Costui, dopo aver elogiato Salvemini come antifascista, affermò: “ma io resto sempre della stessa idea” (a quale idea avesse voluto alludere, non riuscii mai a capirlo). Ed aggiungeva: “Nelle elezioni del 1913, mi comportai in quel modo, solo per necessità” (penso, per ingraziarsi i padroni pansiniani: il De Ceglie, oltre ad essere piccolo proprietario, nei momenti liberi faceva il sensale per arrotondare il guadagno giornaliero). Sorridendo e stringendomi con forza il braccio concluse: “Mé quénne venèeve a Mlefètte cure lémbiòene fésse, seccedèeve né reveleziòene, mettèeve tutte u paiàise sott’a sòepe. Po’ nén de dàiche cé facèvene chère putténe de fèmene d’inda a la tèrre!... [Ma quando veniva a Molfetta quel lampione (testa calva per somiglianza con i lampioni a gas una volta in uso) fesso, succedeva una rivoluzione, metteva in subbuglio tutto il paese. Poi non ti dico che facevano quelle p… di donne nella città vecchia]. Altri ricordi, caratteristici questi, su “Donna Emanuela” madre di Salvemini. Questa “moderna Santippe” (secondo la testimonianza di un suo nipote) un po’ trasandata, con le scarpe quasi sempre infangate, pronta a coprirsi la testa persino con un bacile, se era sorpresa dalla pioggia per strada (“faccio i comodi miei!” esclamava, tirando diritto) continuamente in giro per tamponare le falle di una famiglia, che come la gramigna si moltiplicava di anno in anno. Ed ai creditori che con insistenza, bussavano alla porta di casa sua per chiedere i quattrini, filosoficamente, al suono dellachitarra, canterellava uno stornello che terminava: “ed infine te li darò, quando li avrò”. La poverina, preoccupata della enorme testa del figliolo (“un testone da frate”) e credendola idrocefala, si rivolse al medico Antonio Pansini (un omarino tutto pepe; non era alto più di un metro e mezzo col “cilindro” in testa) il quale dopo aver visitato il bimbo, così rispose: “Donn’Amémèele cusse è tutte cereviédde!” (Donna Emanuela, questo è tutto cervello!). Invitata, in altra occasione, dal Giudice, a testimoniare, nella causa di separazione legale tra lo scontista Bacolo e sua moglie, tagliando corto concluse con spregiudicatezza il suo intervento: “Infine, signor Giudice, i cani si vedono, i gatti si sentono, gli uomini si presumono” (condanna senza prove, penso!). Poi consigliere comunale; con lui trascorsi forse le più belle ore della mia giovinezza a leggere un suo diario sulla vita politica molfettese dal 1890 all’avvento del fascismo. Ignoro la fine di quel diario che era una fonte importante per la storia politica di Molfetta. Devo a lui, oltre che a Salvemini ed a Croce, il mio orientamento nel campo degli studi e della politica. Gli anni del liceo furono per me i più formativi. In casa Fiore, signorilmente aperta “a tutti i venti” conobbi dai più giovani, Vittore, Cifarelli R., Cagnetta, ai più anziani Fabrizio Canfora, Francesco De Martino, Loizzi, Michele Cifarelli, ai professori universitari, Guido Calogero, Guido De Ruggiero, Adolfo Omodeo. In seguito, in una umida serata autunnale, a Villa Laterza, anche Benedetto Croce (non senza aver prima esibito la tessera di identità ai questurini, come accadeva allora ai giovanissimi, per poter ottenere l’accesso al postribolo del mio paese!). Ricordo, come se fosse ieri, un particolare. In seconda liceo, con un amico di scuola, con cui ci scambiavamo i segreti salveminiani, leggemmo sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” un articolo intitolato: “Liste di proscrizione” firmato da Valentino Piccoli, in cui si parlava con ingiurie a più non posso, di Salvemini, Ferrero, Romain Rolland. Il giorno dopo, nell’ora di greco, io ebbi l’incoscienza (per quei tempi, 1937, era forse incoscienza!) di alzarmi, andare al prof. Fiore che tranquillamente traduceva il “Fedone” e sottoporgli tra lo stupore generale della scolaresca, l’articolo. La lettura del passo, sottolineata dall’ironia erasmiana del professore, fu per me e per l’amico un vero trionfo: in pieno fascismo e con una scolaresca che era addormentata in quella letale atmosfera di tempi “borgiani”, noi, forse, senza volerlo, avevamo fatto conoscere nomi che solo era proibito nominare, ma che i nostri coetanei ignoravano del tutto. Anzi, dirò di più, quel mio amico, incoraggiato dalla foga con il prof. Fiore aveva parlato di quei valenti uomini, tirò fuori dalla cartella l’opuscolo “Guerra o neutralità” di Salvemini, e con l’aria più calma e innocente di questo mondo (tale è rimasto anche ora 1962), alzando il braccio a più non posso anche per fare vedere l’opuscoletto agli altri amici disse: Professore, io e l’amico Minervini, stiamo leggendo questo scritto di Salvemini. Buono, buono, bravi, replicò don Tommaso tra lo stupore e la meraviglia generale della scolaresca. Nel 1939 col prof. Fiore, nel riannodare a Molfetta le vecchie amicizie liceali (Minervini, Vincenzo Valente, Amato, La Forgia, Giuseppe (Peppino) gettammo le basi del movimento liberal-socialista. Battevamo a macchina minuscoli manoscritti che giornalmente don Tommaso (così chiamavamo e chiamiamo ancora il prof. Fiore) ci portava da Bari e che noi distribuivamo fra gli amici di Molfetta e, fuori Molfetta, ai professori universitari amici di Fiore. E Salvemini? Fu don Tommaso che mi consigliò la lettura sistematica delle opere del nostro. Lessi così: “Il ministro della malavita” – “La rivoluzione francese” – “Mazzini” – “Dal patto di Londra alla pace di Roma” – libri che fortunatamente si trovavano nella biblioteca comunale della mia città. Poi sopraggiunse la guerra e tutti gli amici, i più cari, di malavoglia indossarono la divisa militare. Restai io e i più giovani a Molfetta. Fu allora che don Tommaso mi diede in lettura la traduzione italiana di “La Terreur Fasciste (1922-1926) Paris, Gallimard, 1930”. Rimasi allibito, trasecolato. Possibile che il fascismo aveva commesso simili stragi? Erano i tempi di Nerone, dei Borgia che trionfavano. Il mio antifascismo, dopo la lettura di quel libro, si trasformò in aperta protesta morale. Lessi e rilessi altre opere di Salvemini; mi copiai le sue lettere al prof. Panunzio (pubblicate poi sul settimanale “Italia domani” del 22 settembre (n. 38) – 4 ottobre 1959 (n.40) e soprattutto le ultime (1922 – 23) furono per me una rivelazione. Badoglio, De Nicola che Salvemini, in una lettera del 2 maggio 1923 indicava come i più qualificati per un Gabinetto di coalizione antifascista, nel 1942, quando copiavo l’epistolario salveminiano, già si preparavano a regalarci un fascismo senza Mussolini, in combutta col re, Churchill, e certa stampa americana. Era ciò che leggemmo subito dopo la caduta del fascismo, nei primi scritti di Salvemini che venivano dall’America, e che noi avidamente divorammo. Ne ricordo uno che mi è rimasto impresso pubblicato su “L’Italia del popolo”, organo regionale del Partito d’Azione: la collaborazione (col Re e con Badoglio e altra razzamaglia) è un suicidio morale. Perbacco, dissi tra me, Salvemini è vivo e vegeto. E pensare che, se il fascismo non fosse caduto, quest’uomo sarebbe morto, senza che l’avessi potuto conoscere. Dopo la caduta del fascismo, la nostra prima iniziativa, fu di inviargli in America una cartolina, scritta dal prof. Panunzio e firmata dai giovani salveminiani, con la quale lo si nominava “presidente onorario” della Università Popolare che si era aperta da poco tempo a Molfetta. Ma non so perché,quella cartolina tornò indietro.Non mi pare che avessimo sbagliato l’indirizzo. Un amico, salveminianamente diffidente, suppose che, tesi come erano i rapporti tra Salvemini e il governo americano, quest’ultimo, tramite la censura, cercava di ritardare o deviare la corrispondenza con gli amici italiani. Notizia avvalorata poi da lettere di Salvemini ad amici pugliesi. Dopo la prima disavventura di quella cartolina, con gli amici Andriani decidemmo, a nome della sezione del Partito d’Azione di Molfetta di inviare a Salvemini un messaggio per invitarlo a riprendere il Italia il suo posto, accanto ai giovani, in una momento che noi già presentivamo di “desistenza”. Dopo un mese una lunga lettera del nostro da Berkeley (17/5/1944) ci ammoniva a curare da noi le nostre piaghe; che l’avvenire era oscuro, e che occorreva un lavoro decennale, per tirarci fuori dalle rovine in cui il fascismo prima, Badoglio e compagni dopo, ci avevano buttato. Ormai dall’America arrivano articoli, lettere, giornali, anche se con un certo ritardo, che tradotti in italiano erano pubblicati sui giornali del tempo, suscitando polemiche e discussioni a non finire. Lessi in quel tempo il volume “La sorte dell’Italia”, programma che avrebbero dovuto attuare i partiti antifascisti al governo dopo la caduta del fascismo, ma che rimase lettera morta. Nel 1947 l’amico Peppino Andriani mi fece sapere che in casa dei miei parenti a Firenze si era incontrato con Salvemini e che gli aveva sottoposto il suo lavoro di laurea; anzi, aggiunse, che probabilmente Salvemini avrebbe tenuto una conferenza a Roma per conto del Movimento federalista europeo. Fu l’indimenticabile amico Corrado De Judicibus che, raggiante di gioia e sventagliando “L’Italia socialista” di Garosci, mi confermò che Salvemini con Einaudi, Silone, Calamadrei e Parri avrebbe parlato al teatro Eliseo il 24 ottobre. Raccimolai i soldi per il viaggio (li avrei anche elemosinati!) scrissi all’amico Stefano Gadaleta che si trovava a Padova e con De Judicibus in una nebbiosa giornata autunnale ci recammo a Roma all’Eliseo. Sala gremitissima, stranieri e giornalisti a non finire. Alle ore 10 precise, comparvero sul palcoscenico i sunnominati oratori. Per ultimo, con passo fermo, Salvemini, che io accolsi applaudendo con un lungo grido di gioia. Dunque, quest’uomo era vivo e vegeto lì, di fronte a me, a pochi metri di distanza. Fu l’ultimo a parlare. Elettrizzò in tal modo l’uditorio (se tutti gli uomini fossero animali ragionevoli… aveva esordito dicendo), che dopo circa 10 minuti da quando gli oratori si erano allontanati, gli astanti applaudivano ancora freneticamente “old Gaetano”. Poi il primo incontro in casa di Ernesto Rossi, in via Nomentana, a un tiro di schioppo dalla famigerata Villa Torlonia. Questi è il nipote di Giovanni, disse Corrado De Judicibus, presentandomi a Salvemini. Restai per una buona mezz’ora assente, come intontito. Per fortuna gli amici Gadaleta e De Judicibus avevano avviato molto bene la conversazione. Dopo mi ripresi e cominciai a parlare: di politica soprattutto (era avvenuta in quei giorni la fusione del Partito d’Azione col Partito Socialista). Salvemini si accorse del nostro imbarazzo e con un brusco: “dunque resa a discrezione?” ci stimolò alla discussione. Non ricordo con precisione ciò che dissi; so, che per circa due ore, parlai aiutato anche dai due amici. Una telefonata dell’ambasciatore Carandini, e la presenza del prof. Fiore e del prof. Mario Praz, che erano venuti a salutare Salvemini, pose fine a quel colloquio, che io avrei continuato per chissà quante altre ore. Rividi Salvemini, con un gruppo di amici molfettesi, il 28 ottobre nello studio dell’avv. Altamura a Piazza Colonna. Rimanemmo a colloquio per circa due ore. Furono ricordi di occasioni riguardanti le elezioni del 1913. Penso che Salvemini sia rimasto seccato (anche l’amico Gadaleta mi confermò la stessa impressione) del tempo perduto e di quei ricordi “archeologici”. Un attimo di animazione ci fu, allorquando, un celebre avvocato di Molfetta dette una notizia che a me parve imprecisa. Replicai forse duramente, perché seccato anche io del tempo che avevamo fatto perdere al Maestro. “Ecco, ecco gli azionisti, disse Salvemini, sorridendo, puntando il dito verso di me, tutti di un modo”. Il colloquio terminò con l’immancabile fotografia-ricordo. Di ritorno a Molfetta, forse perché elettrizzati dal suo incisivo e penetrante discorso, decidemmo di propagandare l’idea federalista fra i giovani. L’apostolo di questa idea, a Molfetta e fuori, fu l’amico Antonio Gadaleta, il quale, dopo aver diretto un settimanale di politica e cultura “La voce di Molfetta” (con una significativa menzione di Salvemini su “Il Ponte” di Calamandrei n.5, maggio 1951, pagg. 556-557 e di Italo Pietra su “L’Illustrazione Italiana”), si era buttato con passione e tenacia, con dattiloscritti, lettere stampate e pubbliche conversazioni a propagandare l’idea federalista. Tutto ciò, prima che le alte sfere politiche ed accademiche, fiutando il vento propizio, fossero entrate, in scena per monopolizzare e diplomatizzare il Movimento federalista europeo. Col consueto atteggiamento critico, ma paterno, da educatore, Salvemini in data 29 settembre 1952 scrisse: …Ricevei anche le lettere federaliste. E credo che facciate ottimo lavoro. Solamente vorrei steste bene attenti a non credere facile la impresa. Finché francesi e germani – o meglio solide correnti dell’opinione pubblica nei due Paesi – non si mettono d’accordo, l’Italia può far poco. Solo se quei due governi si mettono d’accordo l’opera italiana può riuscire efficace. Ora come ora possiamo solamente affermare un principio e una necessità”. Resto profondamente commosso dell’annunzio della morte di mia nonna paterna. In data 27 gennaio 1952 da Sorrento così mi scriveva: «Carissimo, sono rimasto molto afflitto per la morte di “Zia Corrada”. Essa era stata sempre assai buona con me, come “Zio Giovanni”. E me ne ricordavo e me ne ricorderò sempre con affetto e riconoscenza».

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