Considerevoli apprezzamenti ha riscosso la collettiva fotografica “Caleidoscopio”, allestita dal gruppo F/64 presso la Sala dei Templari e inaugurata da Pio Meledandri, direttore del Museo della Fotografia presso il Politecnico di Bari (patrocinatore dell’iniziativa), il 21 settembre, in presenza degli artisti, del presidente dell’associazione, l’ing. Mino Altomare, dell’assessore alla cultura, prof.ssa Betta Mongelli, e della sezione FIDAPA di Molfetta, rappresentata da Angela Alessandrini (la B.P.W. -Italy - sezione di Molfetta è tra i patrocinatori morali dell’evento). “Caleidoscopio” come omaggio allo strumento ottico che consente di ottenere una molteplicità di strutture simmetriche, ma anche quale allusione alla varietà di oggetti e immagini che i fotografi, realizzando serie di tre o quattro opere, hanno offerto allo sguardo attento del pubblico. La denominazione del gruppo, invece, se allude “alla minima apertura di diaframma nello scatto di una fotografia” e al massimo valore di profondità di campo, è un chiaro tributo all’omonimo gruppo fondato nel 1932 da Ansel Adams, per promuovere la straight photography contro il pittorialismo all’epoca imperante. Lo stesso Adams, Edward Weston, Willard Van Dyke e Imogen Cunningham furono tra i principali rappresentanti di tale innovativa esperienza. Proprio l’esperienza di Adams sembra aver considerevolmente influito sui molteplici sguardi rivolti al Landscape (paesaggio). È il caso del trittico su “mare e dintorni” di Giuseppe di Terlizzi che, nelle petrosità del paesaggio portuale, rievoca le rocce in primo piano di certi memorabili scatti dell’artista statunitense. Oppure, ciò si riscontra nelle vette montane, soprattutto le cime di Lavaredo, delle suggestive fotografie di Diana Cimino, memori delle ruvide e possenti rappresentazioni della Yosemite Valley; lo sguardo della Cimino sembra quasi suggerire itinerari d’ascesa, da consumarsi nella solitudine e nel silenzio. E ciò si potrebbe dire per Erminia Fregnan, che invece punta sulla bellezza del paesaggio murgiano, evidenziando come esso divenga inesauribile “tavolozza” naturale, ma non mancando di indugiare sulle sue innate asprezze. Diversa l’impostazione di Gianni Turtur, che guarda al Landscape dall’alto, quasi trasfigurandone i lineamenti in una rappresentazione, ch’è al contempo reale e sfuggente, in armonica fusione di piani differenti. Rosa Minervini ricerca, invece, nei suoi scenari naturali e sulla sabbia, tracce del passaggio umano, che rimodella percorsi di vita e introduce elementi d’incertezza nel grandioso ed elegante scenario marino. Punti di convergenza s’individuano con la ricerca di Vanna La Martire, anche curatrice dell’allestimento, che sembra eleggere il cielo a campo d’indagine, scrutandolo nella sua trama di nembi, come nel rosso tramonto o nell’illuminazione di fuochi artificiali che frangono la compattezza del buo. Corrado Brattoli progetta abilmente un’interessante serie minimal, in cui coesistono la “natura morta” come la vita silente di mari e pescatori, carica di riverberi psichici. Felice De Stena elegge l’elemento marino a protagonista, ponendo in primo piano singoli elementi della scena portuale, a significare metaforicamente il concetto di “legame indissolubile”, e rappresenta con grazia una scuola di volo. Emma Romanazzi esalta romanticamente palcoscenici naturali, per cui un arco nel meraviglioso scenario di Porto Venere o le pareti verticali della gravina di Botromagno divengono quinte teatrali a disvelare lo splendido spettacolo del cosmo o un angolo di porto si fa emblema del trionfo delle luci notturne. Domenico del Rosso idea un ciclo fotografico sull’Olanda, enfatizzandone l’icona di paese delle biciclette e delle piste ciclabili e, rappresentando, nelle teorie di velocipedi in still life, un’alternativa alla corrosione del progresso. Per Antonio Santarcangelo la realtà sembra poter esser ritratta esclusivamente nell’accumulo, nel disordine creativo, nella vitalità esuberante del bazar, ch’è anche affastellarsi di memorie agrodolci. Raffaele de Candia, in un omaggio a Giulio Cozzoli, isola alcuni personaggi della Deposizione, facendone monadi di dolore, soprattutto mentre indugia sulla beltà dolente di Maddalena e sul viso composto, pur nell’apice della straziante sofferenza, di Maria. Claudia de Robertis ritorna sull’immagine archetipica della maternità, ma, nella sua “MaDonna con bambino”, ch’è poi rappresentazione di una giovane madre nella dimensione della quotidianità, dà risalto all’idea che in ogni donna Maria alberghi come ancestrale slancio alla generazione e alla conservazione della vita. Molto accattivanti gli scatti di Ruggiero de Virgilio, con il suo ciclo noir, che offre centralità al tema del mistero e si carica di echi all’eterno, angosciante, interrogativo della morte, nel momento in cui indugia sui teschi del Cimitero delle Fontanelle, emblemi d’anime abbandonate alla furia distruttrice di un destino edace. C’è un che di barocco in tali scatti, ma tale accostamento è da intendersi in chiave puramente positiva, come attenzione al movimento incessante dell’esistenza. Lo stesso principio si ravvisa nella matura arte di Mauro Germinario, che gioca sulla paronomasia tra street photography, fotografia di strada, e straight photography. La città vecchia (e non solo) è scandagliata nella sua esistenza, ora silente ora chiassosa, per poi trasformarsi d’improvviso in scena teatrale, le cui creature (si pensi al ruvido maestro d’ascia, simbolo della stessa Molfetta) sembrano posare inconsapevolmente dinanzi allo sguardo trasfigurante dell’artista. Particolarmente felice l’immagine del fanciullo che beve a una fontana, in cui limpido appare il movimento dell’acqua, metafora della perenne metamorfosi della materia. Il dinamismo sembra dominare nelle creazioni di Cosimo Farinola, che all’arte da strada consacra i suoi scatti, esprimendo l’indefinito variare di un corpo in movimento e in evoluzione, in maniera fortemente diversa da Imogen Cunningham, che aveva spesso rappresentato la danza con linee nitide e armoniose. E il movimento è icasticamente effigiato con abilità anche da Ciccio Amato, quando esprime con bonomia il concetto di salita o indugia efficacemente sui “giochi di strada” di alcuni giovani fanciulli. Colpisce il contrasto tra la torsione del ragazzo nell’atto di calciare il pallone e l’immobilità di un altro adolescente a torso nudo e a riposo. Anche qui l’effetto risulta di considerevole teatralità. ‘Scugnizzi’ molfettesi sono al centro anche nelle raffinate indagini di Mino Altomare, che, con eleganza e realismo al contempo, sembra pennellare l’anima di questi giovinetti dallo sguardo insolente o interrogante, spiritelli ingombranti, eppure non privi di melanconica pensosità, perennemente a zonzo per le vie della città. Un respiro internazionale assume la ricerca di Vito Mongelli, che nel Benin come nel Myanmar, si sofferma sul mistero stupendo della fanciullezza, seppure in aree in cui la vita riserva notevoli sofferenze e asperità. Alla donna, invece, Donato Marzano dedica i suoi studi, muovendo da un’immagine, di sapore espressionista, di donna seduta al tavolino di un caffé, sbarazzina nella sua rivendicazione di un’indipendenza a lungo agognata. Documenti antropologici stupendi sono gli scatti canosini, in un “ritratto di donna velata”, ricco d’echi d’antan, e nella spettacolare rappresentazione delle desolate, emblema di un dolore atavico, ch’è la spada nel petto della Vergine come nel cuore delle tante matres lacrimosae di un Sud ancora alla ricerca del riscatto.
Autore: Gianni Antonio Palumbo