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Astrazione dal Paesaggio con Natale Addamiano e Paolo Amerini
15 settembre 2016

Astrarre è condurre alla luce qualcosa ch’è comunque presente nella materia, ma risulta visibile solo a uno sguardo non superficiale, che fruga, scevera, ricompone. Allontanarsi dal fenomeno per puntare al cuore della percezione. È questo l’esito felice, e coronato da notevole successo, di una pregevole collettiva, che ha veduto Natale Addamiano e Paolo Amerini esporre alcuni frutti dei loro itinerari pittorici. A promuovere l’allestimento, nello scenario della Sala dei Templari, l’associazione archeologico-culturale “Antiqua mater”. I percorsi dei due artisti si muovono secondo direttrici diverse. L’artista pratese Amerini si è formato alla scuola di Anna Sanesi – di cui riecheggiano alcuni stilemi nella rappresentazione della vegetazione – e Rinaldo Frank Burattin. La sua creatività punta a illuminare l’essenza del paesaggio, obliterando gli elementi accessori e accidentali, che concorrono all’inganno dei sensi. Il colore non è mero ornamento, ma principio dominante, artefice dell’ardita costruzione di immagini mentali che, paradossalmente, arrivano a cogliere il tratto distintivo di un luogo ben più di quanto farebbe un bozzettismo meramente descrittivo. Il paesaggio toscano palpita di luce, complice il tocco silente della neve, di cui Amerini insegue con precisione gli arabeschi di bagliori e oscurità lungo le zolle di terra. Cielo e piano dialogano con maestria; talora s’introduce la nota di un’ocra di arenili su cui il frangente si riverbera con dolcezza. È un paesaggio che vive di contrasti (l’arte di Amerini rivela anche una matrice intellettuale, che l’ha condotto a dipingere, come se fossero presenti al suo sguardo, luoghi della letteratura e dell’anima, come i regni danteschi o l’isola di Ogigia) e della tensione a una dissoluzione delle forme, cui concorre anche la colatura, ch’è però al contempo ricombinazione e rideterminazione delle medesime. Natale Addamiano muove dai cieli stellati, partiture pittoriche irrorate di luci che rifulgono improvvise nel fascino oscuro della notte. Non è casuale che Leonardo Conti, curatore della mostra di Addamiano “Nodi quasi di stelle”, recentemente conclusasi presso la Galleria PoliArt Contemporary di Milano, li abbia lucidamente accostati all’audacia espressiva dei buchi fontaniani. Seguono le sue eleganti estrinsecazioni del paesaggio murgiano, dalle più datate, connotate da cromie che gli hanno valso l’appellativo di paesaggista bizantino, alle più recenti, con netta preponderanza delle gravine. Figlie della decantazione della realtà nella visione di atelier, le gravine rappresentano a nostro avviso il vertice della produzione pittorica di Addamiano. Il cielo appare sempre protagonista indiscusso, nella misura in cui dalla sua volta piove la luce che, con tocco da pianista, accarezza ogni centimetro dell’incisione e dialoga con erbe, fiori, rocce calcaree. Il variare dell’ora del giorno determina effetti luministico-cromatici sempre nuovi, trasformando tali geositi in tripudi di fioritura e bellezza, con richiami all’archetipo monettiano della Cattedrale di Rouen in pieno sole. Quelli che avrebbero potuto configurarsi quali scenari inferi, duramente rupestri, assurgono così a santuari della natura e dell’anima, che nel verticalismo confidente s’adagia.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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