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Apuleio e il culto di Iside Una processione di duemila anni fa
15 aprile 2022

La dissoluzione dell’impero macedone e la nascita delle monarchie rette dai Diadochi coincisero con la fioritura di quella civiltà che siamo soliti chiamare Ellenismo. Essa si sviluppò lungo le coste orientali del Mediterraneo, in un arco ideale che va dalla Macedonia all’Egitto, passando dalla Grecia, dall’Anatolia e il Medio Oriente; comprese varie entità statali che per circa due secoli si massacrarono tra di loro con lodevole tenacia, fino alla definitiva conquista romana. L’ordinamento monarchico assoluto prevalse nettamente, insieme alla lingua greca, parlata fra le classi colte, nel commercio e nelle produzioni storico-letterarie, mentre l’arte figurativa si attardava su estenuati canoni e modelli classici non privi, peraltro, di nuove e pensose sensibilità. Sul piano religioso, il Pantheon olimpico greco-romano si cristallizza in pratiche meramente formali, mentre si sviluppa un sincretismo di origine orientale, soprattutto egizio. Le più antiche religioni misteriche, sia orfiche che eleusine, di schietta origine ellenica, intrise di filosofia elitaria ed estranee ad aspettative soteriologiche ed universalistiche, non rispondevano più alle attese della koiné sociale mediterranea. Un’aspirazione confusa al monoteismo, il desiderio di guadagnarsi in vita la Salvezza ultraterrena, la percezione della vita come comune travaglio: tutto questo complesso sentire concorre lentamente allo stabilirsi di una nuova spiritualità, che costituisce uno degli aspetti più affascinanti della tarda Antichità. In relazione all’intento di queste note, a noi interessa delineare, per sommi capi, il culto della dea Iside, universalmente diffuso nell’Impero Romano a partire dal I secolo avanti Cristo. A questo fine, ci serviremo di una delle fonti più notevoli che su di esso possediamo, giuntaci intatta dal secondo secolo della nostra era: l’undicesimo libro de “L’asino d’oro” di Apuleio, scrittore di lingua latina, nato a Madaura, in Numidia (attuale Algeria), intorno al 125 d. C. e morto poco prima del 190. Il mito egizio di Iside è antichissimo: ella era la figlia del sole e della terra e sorella di Nefti, Seth e Osiride; di quest’ultimo fu anche sposa. Seth uccise Osiride per gelosia e gettò il cadavere nel Nilo, ma Iside riuscì a ritrovarlo. Ancora una volta, Seth uccise il fratello e lo tagliò in pezzi, ed ancora una volta la moglie-sorella lo ritrovò, lo ricompose e lo risuscitò. Tra gli antichi egizi, Iside non godé dello status particolare che le verrà attribuito dall’Ellenismo in poi, grazie anche al favore della dinastia tolemaica. Iside fu la dea vicina alla gente, salvatrice e consolatrice, in grado di assumere poteri di altre divinità, unica e universale, “una quae es omnia”, o anche dea “dai diecimila nomi”. L’ “Isis pelagia”, Signora del mare, proteggeva i marinai dalle tempeste e questi diffusero il suo culto in tutti i porti del Mediterraneo. Custodiva gli affetti familiari, la fedeltà, la cura della prole, la pace tra i singoli e nella comunità. Infine, esortava uomini e donne a rispettarsi reciprocamente. In suo onore furono eretti innumerevoli templi: Domiziano ne edificò uno in Campo Marzio, tra i più splendidi di Roma. Dediche, inni, preghiere, ex voto, giacevano in tutto l’Impero. In una iscrizione databile alla seconda metà del I secolo dopo Cristo e proveniente da un’isola dell’Egeo, si può leggere: “Io sono Iside, la Regina di tutto il Paese. Io diedi agli uomini le leggi e stabilii ciò che nessuno può mutare. Io sono colei che sorge nel caldo del Sole. Io son colei che dalle donne è chiamata dea. Io son colei che ha separato il cielo dalla terra. Io ho mostrato la via delle stelle. Io ho inventato la navigazione. Io ho congiunto la donna con l’uomo. Io ho ordinato che i genitori siano amati dai figli. Io ho mostrato agli uomini i misteri. Io ho distrutto i governi tirannici. Ho costretto i mariti ad amare le mogli. Ho reso la giustizia più forte dell’oro e dell’argento. Ho ordinato che la verità fosse rispettata come cosa bella”. Torniamo ora ad Apuleio e all’undicesimo libro del suo romanzo. Lucio, il giovane protagonista, per una maldestra partica magica, è stato trasformato in asino; con la sua anima umana imprigionata in un corpo animale, ha subito una serie di dure prove e giace disperato sulla spiaggia di Chencrea, porto orientale di Corinto. Siamo alla sera che precede il “Navigium Isidis”. Era questa una grande festa processionale che aveva luogo in tutto l’Impero nel primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera e che con il varo di una piccola nave ornata di omaggi floreali, celebrava festosamente la ripresa della navigazione, dopo la pausa invernale, e ricordava l’affannosa traversata della dea alla ricerca del suo amato fratello e marito. Iside, esaudendo finalmente le suppliche di Lucio, gli appare in sogno nella sua veste divina e, nell’atto di emergere dalle acque del mare, così gli parla: “Eccomi, sono qui, Lucio, commossa dalle tue preghiere, io, genitrice delle cose della natura, signora degli elementi, progenie dei secoli, prima fra i celesti, io che i culmini luminosi del cielo, le aure salutari del mare, i lamentosi silenzi degli Inferi con i miei cenni governo, io il cui unico nume, sotto aspetti multiformi, con svariati e diversi nomi è venerato in tutto il mondo, e gli Egizi mi chiamano con il mio vero nome di Iside regina. Ecco, sono qui piena di commiserazione per le tue sventure, presente, favorevole e propizia. Tralascia ormai di piangere e lamentarti, scaccia la tristezza e il dolore: il giorno della tua salvezza è ormai nella luce della mia Provvidenza”. Continuando a parlargli in sogno, la dea gli dà istruzioni sulla processione del giorno dopo: dovrà seguirla per un tratto, avvicinarsi al sacerdote e mangiare delle rose che il religioso gli porgerà. In quello stesso momento riacquisterà finalmente il suo aspetto umano. Ma la sua vita non sarà più come quella di prima. “Ricordati, e tienilo per sempre riposto nel più profondo del cuore, che a me dovrà essere consacrato il corso rimanente della tua vita, sino al termine del tuo ultimo respiro, e non mi sembra ingiusto se dedicherai la vita che ti rimane a colei per concessione della quale ti sarà dato di tornare fra gli uomini”. Ciò detto, Iside scompare dal sogno e poco dopo Lucio si desta. Intanto la notte si dilegua e sorge il sole. La giornata è splendida, il mare è calmissimo. Ha inizio la grande processione isiaca. Apre il corteo una variopinta e festosa schiera di mimi. Vestiti nelle fogge più diverse, a seconda delle preghiere che la dea aveva esaudito, procedono gioiosamente, danzando e cantando, in una fantasmagoria di suoni, ritmi e colori. Seguono gruppi di donne vestite di bianco, con ghirlande di fiori primaverili; altre cospargono la via di corolle ed aromi, altre ancora scuotono i sistri cari alla dea. Gli uomini portano lucerne, fiaccole e ceri di ogni genere. Giovani musicanti suonano flauti e zampogne e cantano inni melodiosi. Sfilano poi gli iniziati ai sacri misteri, uomini e donne di ogni età e ceto sociale, vestiti di bianco. Chiude la processione un folto gruppo di sacerdoti: ognuno regge un piccolo simulacro di un dio egizio. Uno di loro si avvicina all’asino e gli accosta alla bocca una corolla di rose che la bestia subito divora. Ed ecco che il miracolo si compie: in pochi attimi Lucio riacquista il suo aspetto umano. I sacerdoti si inchinano, il popolo tende le braccia verso il sole e canta inni di ringraziamento. Tutti indicano il giovane vestito di bianco, e così esclamano: “Ecco colui che il nume augusto dell’onnipotente dea condusse ad aspetto umano. Felice lui, per Ercole, tre volte beato lui che, certo per l’integrità della sua vita precedente, e per la sua fede, ha meritato una protezione tanto straordinaria dal cielo e che, rinato, si è consacrato alla devozione dei sacri misteri”. Intanto la processione arriva al mare. Lì giace ormeggiata una piccola nave di meravigliosa fattura, con i bordi decorati di pitture egizie, e la vela intessuta di disegni dorati e motti propiziatori alle future navigazioni. Gli iniziati, insieme al popolo, le si avvicinano e la riempiono di aromi e di offerte di ogni genere: poi mollano la cima ed aspettano che il battello si allontani, spinto dalla corrente, e scompaia all’orizzonte. Quindi tutti lasciano il lido e si avviano salmodiando verso il tempio di Iside, dove depongono corolle di verbene ai piedi della statua argentea della dea. Poi, baciatele i piedi, tornano alle loro case. La processione del “Navigium Isidis” è terminata. Ora Lucio deve mantenere le promesse e sottoporsi al rito misterico, guidato dal gran Sacerdote. Di buon mattino questi conduce nel tempio il novizio, consulta i libri segreti e gli comunica tutto quello che occorre fare per l’iniziazione. Trascorsi dieci giorni di astinenza, può aver luogo la cerimonia. Dopo il tramonto, Lucio indossa una semplice veste di lino bianca, detta Olimpiaca: il sacerdote lo accompagna nella parte recondita del tempio. Ciò che accade lì non è dato saperlo: egli è andato nel regno dei morti ed è ritornato attraverso tutti gli elementi; nel buio della notte ha visto risplendere il sole, ha contemplato gli dei inferi e superi. Al mattino, monta su di un panchetto collocato dinanzi alla statua di Iside, viene vestito di abiti colorati, ornati con figure di animali, tiene in mano una torcia e dietro il capo foglie di palma intrecciate come raggi di sole. Quindi le porte del vestibolo sono dischiuse ed il popolo viene ammesso a contemplarlo. Lucio si avvicina alla dea e le rivolge, tra le lacrime, queste parole: “Santa ed eterna salvatrice del genere umano, tu che sei sempre larga di favori ai mortali, dona un dolce affetto di madre alle sventure dei miseri. Né un giorno, né una notte e nessun istante passa senza i tuoi benefici, tu proteggi per mare e per terra gli uomini e disperdi le tempeste della vita e distendi la tua mano salutare, tu che hai anche il potere di districare le fila inestricabili dei fati; tu mitighi le tempeste della fortuna e trattieni gli influssi nocivi delle stelle. Te onorano i celesti, ti venerano gli Inferi, tu fai rotare il mondo, tu fai comparire il sole, tu reggi l’universo, percorri il Tartaro. A te rispondono le stelle, per te ritornano le stagioni, giubilano i numi, servono gli elementi. Al tuo cenno spirano i venti, le nubi si gonfiano, i semi germogliano, i germogli crescono. Si impauriscono gli uccelli che trapassano per i cieli davanti alla tua maestà, le fiere erranti per i monti, i serpenti nascosti nel suolo, le belve nuotanti nel mare”. Dopo qualche giorno, desideroso di tornare a casa, Lucio si imbarca su una nave e giunge sano e salvo a Roma, nel porto di Augusto. Ha promesso alla dea di esserle fedele per tutta la vita, di predicare il suo culto e procurarle proseliti. Abbiamo esposto brevemente l’ultimo libro de “L’Asino d’oro”, quello nel quale il tormento spirituale di Apuleio si placa in una appassionata descrizione dei misteri isiaci. In realtà, nel romanzo tutta la società antica, giunta alla pienezza delle sue espressioni filosofiche, artistiche e spirituali, mostra i segni della crisi. La curiosità, l’intraprendenza, la libertà di Lucio non bastano a nasconderne le crepe. Il fondo intellettuale, dottrinario e in fondo sofistico della visione di Apuleio, straordinariamente moderna, rifulge sul limitare di una società che presto approderà su altri lidi. Ma su di essi non si poserà più lo sguardo benevolo e sereno di Iside. © Riproduzione riservata

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