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Alle origini della Santa Allegrezza FRAMMENTI DI STORIA
15 dicembre 2000

di Marco de Santis “Quanno nascette Ninno a Bettalemme / era nott’e pareva miezo juorno. / Maje le stelle, lustre e belle, / se vedettero accossì: / e a cchjù lucente / jett’a chjamma’ li magge all’uriente (Quando nacque il Bambinello a Betlemme / era notte e pareva mezzogiorno. / Mai le stelle, lucide e belle, si videro così: / e la più lucente / andò a chiamare i Magi in oriente)”. Così Sant’Alfonso de’ Liguori, in una festa di luce, rievoca la nascita di Gesù Bambino nel più fresco dialetto napoletano. Il tema della Natività, accompagnato pure a quello della Redenzione, fu così caro al Santo, che il padre dei redentoristi compose anche la famosissima pastorella “Tu scendi dalle stelle”. Ma questa è solo la punta dell’iceberg, perché ad Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) si devono numerose altre canzoni sacre. Grazie a lui, al liguorino Gennaro Maria Sarnelli (1702-1744) e tanti altri seguaci, la Congregazione dei Sacerdoti del Santissimo Redentore, per l’innalzamento culturale e spirituale del clero e delle popolazioni meridionali, varò una copiosa produzione di istruzioni apostoliche, opere edificanti, libri devozionali, scritti catechistici, preghiere e canzoni. Una di queste potrebbe essere proprio “La Santa Allegrezza”, il canto natalizio molfettese per antonomasia (anche se versioni affini sono note a Barletta, Bari e perfino a Capovalle, in provincia di Brescia). Infatti, come ha ipotizzato Vincenzo Valente, il poemetto, nelle cui sequenze “risalta l’elemento figurale arcadico-pastorale tipicamente settecentesco”, per quanto riguarda l’origine “si lascia collegare con la diffusione in Puglia del movimento religioso dei Redentoristi” (presentazione a Giovanni Capursi, Come e quando nacque la Santa Allegrezza, Molfetta, Mezzina, 1969, p. 7). Se dunque “La Santa Allegrezza” risale con tutta probabilità al XVIII secolo, nella seconda metà dell’Ottocento il canto si configura a Molfetta come una tradizione consolidata da tempo. Lo documenta, come ebbi modo di annunciare nel secondo numero di “Studi Molfettesi”, lo scrittore Pasquale Samarelli nel racconto Stella d’amore, dedicato a Gioacchino Poli e pubblicato nel 1885 dall’editore Zanichelli di Bologna, in cui rievoca efficacemente l’atmosfera della vigilia di Natale fin de siècle, dando la prima testimonianza sul canto popolare dicembrino e su una nenia natalizia molfettese (verosimilmente Nónnê nónnê nónnë / ha partoritë la Mêdónnë…). Eccone il passo: “Era già sera. Le grida assordanti de’ venditori echeggiavano dalle vie fangose, da’ crocicchi, dai vicoli più oscuri; sui pianerottoli delle scale si cantava la santa allegrezza e la ninna-nanna; nella piazza si vendevano ancora i bambini di cera, e i pescivendoli gridavano, sbraitavano a farsi cascar l’ugola, per vendere le alaguste, i capitoni vivi e le anguille che guizzavano ne’ mastelli, i pesci e i frutti di mare sulle tavole di pietra, tutte quelle leccornìe che, in questo giorno di baldoria, di regali e di augurii più o meno sinceri, non mancano alla mensa del ricco”. Dopo questa interessante anticipazione, Mauro Altomare, nella “Rivista delle tradizioni popolari italiane” (a. II, Roma 1894-1895, p. 316) diretta da Angelo De Gubernatis, forniva il primo quadro dettagliato della “Santa Allegrezza” in un articolo intitolato Il Natale a Molfetta: “È antico, qui, l’annuo uso di cantare, nelle ultime nove sere che precedono il giorno solenne di Natale, come dicesi in dialetto, la Santa Allegrizza, specie d’inno biblico su Gesù bambino. Quest’uso consiste nel recarsi, dopo il tramontar del sole, alle porte dei cittadini, a cantare l’inno suddetto. Dapprima l’uso tradizionale vigeva solo presso i becchini; ora, essi vanno con altri cittadini. I becchini, prima che giunga la prima sera della novena, vanno, nel giorno, per le vie del paese gridando: «Chi è devota della Madonna, femmine?» A questo appello, ogni donnicciuola, come ogni buon popolano, chiama il becchino, il quale, dietro compenso di quattro soldi per tutte le nove sere, tinge col rosso di sinopia sullo stipite o sul sommo della porta di chi lo chiama un S, segno dell’«abbonamento» del divoto. Giunta quella sera, ognuno dei becchini va in giro presso gli «abbonati», e, con voce lugubre, sì che non sembri voglia solennizzare il tanto giulivo avvenimento, canticchia, dietro la porta, la Santa Allegrizza. E così di seguito per tutte le sere. Alcun tempo dopo, sorsero allo stesso scopo delle compagnie di circa sei individui. Di questi, due o tre sono forniti di chitarra o di mandolino, gli altri fanno ufficio di cantatori. Si mettono in corona e, con voce alta, cantano e suonano, all’unisono; i curiosi stanno intorno a loro. Coteste compagnie sono per lo più composte di contadini, ma talora anche più numerose”. Si tratta di una testimonianza molto importante, ignota persino a mons. Giovanni Capursi che dell’argomento si occupò a lungo, perché Mauro Altomare, maestro elementare e poligrafo vissuto tra il 1867 e il 1944, sullo scorcio dell’Ottocento riferì notizie di prima mano sulla doppia modalità di esecuzione della sênd’allëgrìzzë (o sênd’allëgrìzzjë) e sulla sua evoluzione dal monotono recitativo dei becchini, più antico, al canto con accompagnamento strumentale, più recente. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tramontata la tradizione dei becchini, restò in auge solo la bella consuetudine delle brigate di musicanti e cantori. Lo si desume da un saggio di Saverio La Sorsa, apparso durante la Grande Guerra nella “Rivista Italiana di Sociologia” (a. XXI, Roma, luglio-dicembre 1917, p. 476) sotto il titolo di Costumi e riti pugliesi: “Si formano delle compagnie di suonatori con mandolini e chitarre e un paio di discreti cantanti, le quali vanno per le case degli amici, specialmente dove si fa il presepe, a recitare la lunga tiritera, che narra della vita e passione di Cristo. I parenti ed i vicini si sogliono riunire per ascoltare questo canto, e talvolta le famiglie ricche combinano delle feste, durante le quali vari giovanotti recitano la «sanda legrizie» o la «pastorella», accompagnati dal piano, da violini e controbassi. È un’usanza caratteristica di Molfetta che, credo, non esiste in altri paesi”. Anche se il La Sorsa s’ingannava in parte su quest’ultimo punto, risulta evidente il radicamento locale della tradizione canora e musicale e la sua verticalizzazione sociale, con l’espansione dell’usanza dagli umili fossori ai ceti contadini e artigiani e da questi alle classi borghesi e patrizie. Inoltre già nell’Ottocento, come il testo si è trasformato, passando dai versi semidialettali dei becchini al ripristino di forme più colte in lingua, così è mutata la modulazione del canto, che, al recitativo dei necrofori, ha visto subentrare un rivestimento ritmico-melodico in sei ottavi. Le versioni musicali più antiche sono dovute a un autore ignoto e a Giuseppe Peruzzi. La prima melodia, più semplice e ripetitiva, è quella tuttora in auge; la seconda, più briosa e raffinata, risale al 1880, ma viene eseguita di rado. Ebbe tuttavia in passato un’eco discreta, tant’è vero che nel 1913, nello scontro elettorale tra il socialista antigiolittiano Gaetano Salvemini e il repubblicano filogovernativo Pietro Pansini, la melodia servì di base a uno dei testi dialettali antipansiniani.
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