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1. Giubileo 2025 Saggi di cultura, arte e spiritualità
15 novembre 2024

Un’immagine significativa, si direbbe classica, che possa illustrare il motivo spirituale più rilevante che ha spinto l’uomo medioevale a lasciare la sicurezza della propria casa e della propria terra per raggiungere un luogo santo mi sembra che sia la Deesis, parola greca che sta a significare l’Intercessione. Il credente pellegrina per intercedere e chiedere al Signore l’ottenimento della vita eterna, attraverso la mediazione della Vergine e dei santi. La vita è un cammino verso la Gerusalemme celeste, la patria ambita e sognata da ogni battezzato. La rappresentazione della Deesis ha radici remote e sorge dalla liturgia eucaristica, la preghiera per eccellenza della Chiesa. Si compone di tre figure principali, alle quali si possono unire altre in qualità di intercessori, in conformità a quanto avviene anche nella liturgia. Al centro è rappresentato il Cristo seduto in trono, Giudice ricco in pietà e in clemenza, mentre ai suoi lati compaiono la Madre di Dio e san Giovanni il Battista, gli intercessori per antonomasia. La scena si rapporta al pensiero escatologico, al giorno del giudizio, quando i due intercessori chiedono al Signore Pantocratore, al Verbo incarnato, Amico degli uomini, di accogliere la supplica dell’orante. Il contenuto della richiesta consiste in questo: partecipare alla luce eterna, entrare nella Gerusalemme celeste. Gerusalemme è la città splendente e luminosa, la sede dei beati, dove regna sovrana la pax, sconosciuta all’uomo sulla terra. Il cristiano ha di sé e del proprio corpo un’idea molto chiara. Sa che la vita terrena è di breve durata (brevis lux), un soffio, un passaggio, un breve tendere verso l’eterno. La vita dell’uomo non si risolve, né muore con le fatiche terrene. Sulla terra conosce i giorni della settimana, ognuno dei quali ha una aurora e un tramonto; ma questo avvicendarsi di giorni che contengono la notte, marcia inesorabilmente verso la luminosità eterna, l’ottavo giorno, che non conosce più tramonto. L’esperienza gli assicura che egli è pellegrino sia nel corpo e sia nello spirito. Si rende conto che “venuto alla luce” dal seno materno, si ritroverà anziano con il corpo in “decadenza” un contenitore che viaggia verso la frantumazione. In cammino è anche la sua mente, che percorre i sentieri immateriali ed eterni della verità, della giustizia, della pace. La sua luce interiore cammina verso l’Assoluto, il Cristo Signore, l’Alfa e l’Omega. L’incontro con Lui spiega il senso e il significato del cammino fisico e spirituale e narra della natura del suo pellegrinaggio. Il credente si sente un pellegrino per natura, una persona impegnata al raggiungimento della Gerusalemme celeste, dov’è ad attenderlo il Dio del creato, l’Amico degli uomini, il Misericordioso. Sin dai primi secoli dell’era cristiana, per il credente visitare un luogo dove si è rivelata la “gloria di Dio” (Terra Santa) e/o dove erano presenti i segni della benevolenza celeste, manifestata attraverso i suoi angeli (il Gargano, terra di san Michele Arcangelo) e i suoi santi (Roma, Santiago de Compostela, Vézelay, Bari), apparteneva ad un bisogno dello spirito. Era un’aspirazione tenera dell’animo. Un’immagine significativa, si direbbe classica, che possa illustrare il motivo spirituale più rilevante che ha spinto l’uomo medioevale a lasciare la sicurezza della propria casa e della propria terra per raggiungere un luogo santo mi sembra che sia la Deesis, parola greca che sta a significare l’Intercessione. Il credente pellegrina per intercedere e chiedere al Signore l’ottenimento della vita eterna, attraverso la mediazione della Vergine e dei santi. La vita è un cammino verso la Gerusalemme celeste, la patria ambita e sognata da ogni battezzato. La rappresentazione della Deesis ha radici remote e sorge dalla liturgia eucaristica, la preghiera per eccellenza della Chiesa. Si compone di tre figure principali, alle quali si possono unire altre in qualità di intercessori, in conformità a quanto avviene anche nella liturgia. Al centro è rappresentato il Cristo seduto in trono, Giudice ricco in pietà e in clemenza, mentre ai suoi lati compaiono la Madre di Dio e san Giovanni il Battista, gli intercessori per antonomasia. La scena si rapporta al pensiero escatologico, al giorno del giudizio, quando i due intercessori chiedono al Signore Pantocratore, al Verbo incarnato, Amico degli uomini, di accogliere la supplica dell’orante. Il contenuto della richiesta consiste in questo: partecipare alla luce eterna, entrare nella Gerusalemme celeste. Gerusalemme è la città splendente e luminosa, la sede dei beati, dove regna sovrana la pax, sconosciuta all’uomo sulla terra. Il cristiano ha di sé e del proprio corpo un’idea molto chiara. Sa che la vita terrena è di breve durata (brevis lux), un soffio, un passaggio, un breve tendere verso l’eterno. La vita dell’uomo non si risolve, né muore con le fatiche terrene. Sulla terra conosce i giorni della settimana, ognuno dei quali ha una aurora e un tramonto; ma questo avvicendarsi di giorni che contengono la notte, marcia inesorabilmente verso la luminosità eterna, l’ottavo giorno, che non conosce più tramonto. L’esperienza gli assicura che egli è pellegrino sia nel corpo e sia nello spirito. Si rende conto che “venuto alla luce” dal seno materno, si ritroverà anziano con il corpo in “decadenza” un contenitore che viaggia verso la frantumazione. In cammino è anche la sua mente, che percorre i sentieri immateriali ed eterni della verità, della giustizia, della pace. La sua luce interiore cammina verso l’Assoluto, il Cristo Signore, l’Alfa e l’Omega. L’incontro con Lui spiega il senso e il significato del cammino fisico e spirituale e narra della natura del suo pellegrinaggio. Il credente si sente un pellegrino per natura, una persona impegnata al raggiungimento della Gerusalemme celeste, dov’è ad attenderlo il Dio del creato, l’Amico degli uomini, il Misericordioso. Sin dai primi secoli dell’era cristiana, per il credente visitare un luogo dove si è rivelata la “gloria di Dio” (Terra Santa) e/o dove erano presenti i segni della benevolenza celeste, manifestata attraverso i suoi angeli (il Gargano, terra di san Michele Arcangelo) e i suoi santi (Roma, Santiago de Compostela, Vézelay, Bari), apparteneva ad un bisogno dello spirito. Era un’aspirazione tenera dell’animo. 1. *Il saggio viene pubblicato per la prima volta in lingua italiana e fu pubblicato per la mostra di Singapore Life and pilgrimage, in Journey of Faith Art & History from the Vatican Collections, catalogo, Asian Civilisations Museum, giugnoottobre 2005, Fabulous Printers Pte Ltd, Singapore 2005, pp. 19-21. Per il cristiano, che cosa poteva esserci di più grandioso che “vedere” i luoghi santi? Quale forma migliore dare alla vita terrena, considerata di minore significato di quella eterna, che incontrare in anticipo l’atmosfera celeste? Se c’era un convincimento era questo: il mondo invisibile è più reale del visibile. A questa certezza ne seguivano altre, dettate dal presupposto che la morte non pone termine al destino individuale. Il pellegrinaggio, da esigenze dello spirito, si volgeva anche a funzione purificatrice. Lasciare i propri familiari, affrontare l’ignoto, attraversare come straniero popoli e nazioni, abbandonare i beni, facendo testamento perché il ritorno non era garantito, camminare senza certezze, era un atto di profonda rinuncia. Era una decisione analoga a colui che lasciava il mondo ed entrava in una comunità monastica. Decidere di pellegrinare equivaleva dare a sé stesso un exilium spirituale, diceva san Pietro Damiano. Il marciare verso un luogo baciato dall’ amore di Dio era un atto spirituale, che prendeva e si rivestiva di segni esterni e visibili. In realtà i pellegrini, come i monaci, usavano un abito particolare, che li proteggeva dall’ essere confusi con i vagabondi e permetteva loro dei diritti di riconoscimento. Secondo il luogo dove intendevano recarsi o dal quale provenivano, portavano segni e simboli specifici: il Volto Santo, per Gerusalemme; le due chiavi incrociate, per Roma; la conchiglia, per San Giacomo di Compostela; le penne colorate, per San Michele Arcangelo sul Gargano. Né mancavano altri simboli per i tanti santuari visitati lungo il percorso e dove la letteratura cristiana narrava d’interventi divini e di presenze di santi. Oltre alla bisaccia e al bordone, tutti avevano in comune sulle labbra il Kyrie elèison, Domine miserere, Signore abbi pietà. L’espressione è nella liturgia eucaristica la premessa per accedere alla Parola e al Pane della vita. Il riconoscimento della propria povertà e della propria pochezza davanti a Dio è la mano tesa per ricevere grazia su grazia. L’invocazione era così diffusa da comparire persino nell’iconografia di un giovanissimo pellegrino, san Nicolino di Trani, che morì mentre predicava la crociata dei giovani in Terra Santa. Trani, questa splendida città situata sulla costa adriatica italiana verso la Terra Santa, al pari della vicina Molfetta nota per il Santuario della Madonna dei Martiri e per l’Ospedale dei crociati, gli dedica una meravigliosa cattedrale, per accogliere il corpo e conservarlo quale prezioso tesoro. Il pellegrinaggio è una forma di mortificazione redentiva, un viaggiare come gli ebrei verso la terra promessa, un accumulare meriti salvifici per l’anima, un partecipare alla bellezza della santità. Ritornare a casa costituiva un impegno non minore, nel cammino dell’ascesi. Ritornare a casa era per il pellegrino l’espressione più eclatante della benevolenza di Dio, la manifestazione più evidente agli occhi di tutti che la vita era cambiata in Dio ed era divenuta segno di santità per tutti coloro che non avevano avuto la fortuna di pellegrinare. I pellegrini erano guardati con ammirazione. Avendo visitato i luoghi sacri, erano considerati investiti e “ricreati” dallo spirito di santità. Il pellegrinaggio aveva dato loro un nuovo battesimo. Di qui, un nuovo nome. Secondo il luogo dove si erano recati – alcuni erano in pellegrinaggio tutta la vita – erano indicati con il nome devoto di Pellegrino/i, Romeo/i, quasi a sancire santità ed esperienza nel dirigere le anime verso Dio. Spesso alle motivazioni spirituali e religiose si univano anche motivi profani, in particolare il gusto per il viaggio in terre lontane. Un fenomeno simile al nostro, che talora viaggia con la seducente indicazione di turismo religioso. Una forma di viaggio, che ebbe molto sviluppo a partire dal Quattrocento, quando, alle esigenze spirituali dello spirito, della pietà e della devozione, si unì il desiderio di conoscere terre nuove e culture differenti. Nel sec. XI le principali mete dei pellegrini sono ormai fissate dal tempo e dalla tradizione. Erano costituite dai tre Sepolcri, che esercitavano la massima attrazione: il Sepolcro di Cristo, dalla cui luce il mondo medioevale conobbe la vitalità della Risurrezione; il Sepolcro di Pietro, l’apostolo chiamato da Cristo a dare fisicità alla Parola che dà la vita; il Sepolcro di Santiago de Compostela, l’apostolo che si voleva intervenuto in battaglia per fermare gli avversari di Cristo. A questi luoghi si univa il Gargano, la montagna sacra dove l’arcangelo san Michele aveva posto la sua residenza terrena. Un luogo terribilis, che per il paesaggio faceva ricordare la descrizione apocalittica della lotta che il Principe delle schiere celesti aveva sostenuto contro il dragone a difesa della “Donna e il Bambino”. Dall’arcistratega delle milizie celesti si recavano papi e principi, soldati e gente umile, implorando di volta in volta la difesa della Chiesa, delle nazioni, delle città, delle comunità e, particolarmente, della propria vita, messa a rischio al momento della morte, quando il diavolo avrebbe ingaggiato l’ultima battaglia per strappare la sua anima al Regno della Luce. Lungo questi percorsi, una miriade di santuari e di chiese mariane fissava le tappe del cammino materiale e spirituale. Le strade d’Europa erano attraversate da fedeli provenienti dalle più diverse nazioni, creando un singolare tessuto d’unità di popoli. Viaggiava gente unita dalla radice culturale della fede proclamata, cantata e visitata. Il risultato immediato era una continua osmosi, con un conseguente arricchimento nella cultura, nelle scienze, nell’economia e nella qualità della vita materiale, segnata naturalmente dal primato della civiltà spirituale. Il pellegrinaggio a Roma aveva una peculiarità tutta sua, speciale: si andava a visitare la tomba di Pietro, di Colui che da Cristo aveva ricevuto le chiavi del Regno e che la devozione filiale verso i suoi successori aveva portato santa Caterina da Siena a chiamare il pontefice “il dolce Cristo in terra”. Aveva la sorte di ripercorrere le strade attraversate da san Paolo, l’apostolo delle Genti che, come san Pietro, aveva testimoniato con il sangue l’amore a Cristo; di recarsi alle catacombe e pregare dinanzi alle tombe dei primi martiri cristiani, dal cui sangue – come seme – si era irrorata e fecondata la Chiesa; di imprimere nella mente e nel cuore i luoghi della santità. Andare alla Basilica di San Giovanni in Laterano, fondata da Costantino a seguito della vittoria su Massenzio (nel sogno premonitore, l’imperatore aveva visto sulla croce l’iscrizione in hoc signo vincis) e prostrarsi non solo davanti alla cattedra di Pietro ma soprattutto davanti ai tesori della Chiesa, particolarmente le immagini acheropite di Cristo e della Vergine. Alla cattedra di Pietro il pellegrino si recava per essere confermato nella fede e perché l’Apostolo si ricordasse di lui al momento dell’ingresso nel Regno dei cieli. A Pietro infatti Cristo aveva consegnato le chiavi delle porte, quella d’oro per aprire, quella di metallo meno pregiato per chiudere. L’iconografia poneva accanto alla figura del Cristo giudice 1’immagine di Pietro, in sostituzione di san Giovanni Battista; oppure, non mancherà di aggiungere alla raffigurazione classica della Deesis le figure di Pietro e di Paolo e dei martiri e dei santi romani. Roma non era solo il luogo dell’accoglienza. Era ed è la sede dell’evangelizzazione. Dal Tevere partivano i nuovi apostoli ad annunciare la Buona Novella, a fondare nuove chiese, ad irradiare il mondo con la luce di Cristo. Portavano Pietro, convinti che ubi Petrus, ibi Ecclesia, dov’è Pietro, ivi è la Chiesa (Expositio in Ps., XL § 30): la vera Chiesa è quella che si riconosce nel Pontefice romano. L’immagine della chiesa di Roma era raccontata e segnata con un’immagine mariana, raffigurante la Madonna Basilissa. L’icona in mosaico dominava l’antico catino absidale della Basilica di Santa Maria Maggiore. Le luci del giorno e le fiammelle nella notte la illuminavano, dando un movimento continuo, maestoso e aulico, che incuteva soggezione, preghiera e amore. La Vergine Madre di Dio, secondo quanto insegnavano i maestri della liturgia, è immagine della Chiesa. Maria e la Chiesa sono un riferimento reciproco, continuo e illuminante. La Chiesa di Roma è la prima delle chiese, la Regina delle chiese, Colei che presenta il Cristo Signore al mondo e che ha ricevuto il mandato di confermare nella fede le chiese sorelle. Il pellegrino conosceva la missione istituzionale della Chiesa romana e poterla visitare significava entrare a contatto del mistero stesso della “barca” che salva. “Vedere” Pietro significava vedere l’esperienza storica del Cristo nella Chiesa, “sperimentare” in terra l’universalismo della parola divina confermata. Al presente, a differenza dei secoli passati, è il Pontefice di Roma che si è fatto pellegrino e, visitando le nazioni, si presenta agli uomini per chiedere di visitare le coscienze, sedi del Dio vivente, e annunciare che la “Luce si è fatta Parola, è divenuta Carne e abita in mezzo a noi”.

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