Un fiero gabbiano
Poesie di Jole de Pinto
Pregevole e intensa la nuova silloge poetica della scrittrice molfettese Jole de Pinto, dal titolo Un fiero gabbiano. Pamphlet di poesia 2013-2014. Il libello è stato edito per i tipi di Res Nova e reca la bella copertina di Fabrizio Minervini, con una preziosa “spirale astratta di conchiglia”. L’indicazione stessa di voler presentare al pubblico un pamphlet di poesia risuona come la sfida di una poetessa che dà espressione in modo vibrante al proprio sguardo lucidamente critico sul mondo, in un felice connubio di pathos e abilità tecnica. Il gabbiano emerge come presenza non solo letteraria, figlia di una tradizione che dal Petrarca al Cardarelli annoverava esiti di struggente poeticità. Esso diviene “unico amico” delle melanconie e delle “ore di luce” della scrittrice. È anima azzurra di un microcosmo in cui presenze costanti appaiono il mare, ora “in subbuglio” ora spumeggiante di sogni e incanti, e la Torre, nobile specola da cui spiccare voli psichici o su cui lasciar frangere il moto ondoso delle paturnie. È proiezione dell’io lirico, nella sua ansia d’immenso e nella sua attitudine fantasticante, che si scontra con allegoriche presenze di avvoltoi, protese a deprimerne lo slancio vitale. La scrittrice misura il divario tra il dover essere e la realtà. Vorrebbe abbandonarsi alla chiarità dell’estate, ma testimonia come anche la stagione un tempo prediletta abbia ormai perduto “l’ambra delle sue albe”. Il pensiero s’ “autunna” e alla scrittrice non resta che rifugiarsi in una dimensione di penombra. Come Foscolo, non teme la sera e il senso panico d’infinito che l’accompagna, ma le riconosce funzione consolatoria: “m’acquieta / l’oro m’inventa / e dell’affanno mi smemora / del giorno”. Nella raccolta emerge nitido l’anelito all’amore, unica forza che possa consentire all’uomo di “perforare le dune” e di favorire “l’assopirsi delle cicatrici”. Eppure il bisogno di tenerezza, che “nel silenzio irreale della casa” trova talora conforto nell’intenso e confidente sguardo di Elios, è destinato a cadere inappagato. Solo di rado esso s’incanala nei rivoli dell’amicizia o attinge allo scrigno di un’infanzia carica di memorie dolceamare (in cui spicca, con struggente nostalgia, l’immagine dei genitori) e di una giovinezza mai troppo spensierata. L’autrice sperimenta così un’arida e desolante “carestia d’amore” e, rintuzzata dallo spettro costante del “nonamore”, si sofferma a inseguire con lo sguardo dolci effusioni di “morbidi uccellini”, per i quali nutre invidia, dal momento che possono senza remora alcuna abbandonarsi agli slanci del sentimento. Nel frattempo, dal mondo giungono notizie disperanti. Un veleno subdolo sembra disseminare il Male; potrà forse l’ Uomo venuto ‘dalla fine del mondo’ farsi promotore di una palingenesi? L’oscurità si riflette nel microcosmo dell’autrice, che avverte la presenza di “orchi onnivedenti” e “streghe onniudenti” a disseminare il tossico dell’invidia e a deprimere ogni suo slancio vitale. La raccolta si distingue anche per l’eleganza dello stile. La de Pinto si esprime da sempre in un ductus nobile e intrinsecamente musicale. Il suo è un linguaggio scelto, in cui si individuano echi letterari, come il dantesco “ingigliarsi” della luce o il “gocciare”, elegantemente ripreso anche dal poeta Mario Luzi. Si registra il gusto del termine specialistico, spesso usato con valenza metaforica in una lingua fatta di cose: si pensi all’”ingrommare” della luce o a quel botanico “plumbaco celeste”, che introduce una deliziosa cromia azzurrata, o al “cirmolo” e, infine, a quel “rammagliare”, tipico del rammendo, adoperato in riferimento al bene “rammagliato nella rocca”. E poi ancora immagini di elegante delicatezza, come nelle “gerle di stelle”, emblema di un’indole sognatrice, che insegue ancora arabeschi d’amore.
Autore: Gianni Antonio Palumbo