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U furne de Mechélìne Quadretti di vita popolare molfettese
15 luglio 2004

In passato, prima che le nostre case fossero dotate di fornelli e forni a gas, si usava cucinare tutto con il fuoco a legna. Ma soprattutto si faceva largo uso di forni pubblici, dislocati un po' dappertutto in paese. Ricordo che da ragazzo spesso mi recavo in un forno a legna, ubicato nelle vicinanze della mia casa materna, esattamente in Via Carlo Cattaneo n. 57, che da tutti era chiamato “U furne de Mechélìne” (il forno di Michelino), gestito da un tale Michele Ciccolella. Costui era un uomo alto e tarchiato, sulla cinquantina, baffuto e dall'aspetto severo che incuteva un po' di paura. Fumava il sigaro e, quando questo era spento, amava gustarlo tenendolo tra le labbra. Il locale, a piano terra, era esteso in lunghezza ed aveva il soffitto a botte. Sulla sua sinistra era accatastata tutta la materia prima per alimentare il forno (grossi pezzi di legna da ardere, cumuli di rami secchi di ulivo, trucioli, gusci di mandorle), mentre sulla destra, allineati sul pavimento, c'erano molti tegami e turtìere (teglie grandi rettangolari) che aspettavano di essere infornati o che erano appena usciti dal forno. Le vivande erano le più disparate e bene rappresentavano l'arte culinaria molfettese: peperoni arrostiti o ripieni, melanzane affettate o a capuzzélle (svuotate e farcite di riso), palmeggiéne (parmigiana di melanzane), cuchele de prime furne (focaccia di primo forno), patate e riso al forno, agnello con patate, taralli dolci e bolliti, seppie ripiene al forno, dolci di mandorle, sformati e timballi di vario genere. Non potevano mancare le pegnétìedde, pignatte nelle quali si usava infornare legumi di vario genere. Michelino ogni giorno infornava e sfornava tegami con pale di legno, dotate di manici corti e lunghi (fino a cinque metri) a seconda della grandezza della teglia e del punto in cui adagiarla all'interno del forno. Teneva sempre a portata di mano la quartàre (recipiente di creta con due manici) piena d'acqua per dissetarsi. La ressa dei clienti inevitabilmente si verificava in ricorrenza delle grandi festività (Natale, Pasqua), ma soprattutto nel primo giorno di quaresima (mercoledì delle ceneri, per intenderci) e a mezza quaresima, giorni in cui le famiglie molfettesi mangiano il tradizionale calzòene (focaccia rustica farcita con cipolle, pesce fritto, cime, olive snocciolate). Il povero Michelino in quei giorni era distrutto non tanto dal superlavoro, quanto dalla gente che si accalcava intorno a lui e che doveva evitare di colpire con le pale. Facìteve chiù dréiete, cà la pàle ve póiete streppeià! (Fatevi più dietro perché la pala può colpirvi!) di tanto in tanto ripeteva con voce forte e adirata. Il poveretto, bersagliato da domande, era frastornato da quel vociare: Mechélìne, av'assàute u calzòene méie?(Michelino, hai sfornato il mio “calzone”?), Mechélìne, famm'ue pertà a case do uégnòene (Michelino, fammelo portare a casa dal ragazzo), Mechélìne, quénde t'à dà dà? (Michelino, quanto ti devo dare?), Mechélìne, mó mu fè appénne nghénne cuss calzòene (Michelino, mi fai passare il desiderio del “calzone”), Mechélìne, tù sì scherdàte u calzòene méie? Mó stòeche n'òere ad'aspettà (Michelino, hai dimenticato il mio “calzone”? È un'ora che sto aspettando). Lui, con la fronte che grondava di sudore, mentre era attento a che le vivande non bruciassero, tentava di rispondere a tutti con molta pazienza, fino a quando, non potendo più, sbraitava: Ci vv'é muerte n'dèrre a' vvàue é le calzàuene! Facìteme fadgà òesce (Accidenti a voi e i “calzoni”! Fatemi lavorare oggi). Ma non è tutto. I tegami già pronti, principalmente i grandi, venivano consegnati a domicilio da un ragazzo, che li allineava su una tavola rettangolare, lunga un paio di metri e larga circa quaranta centimetri, che poggiava sulla sua testa protetta da un cèrcine, sporco di nerofumo. Come in ogni tempo, anche allora esistevano i prepotenti che si facevano largo nella folla, per farsi servire prima degli altri. Un giorno, mentre aspettavo che fosse estratto dal forno il mio tegame, assistetti a un 'botta e risposta' tra due donne che si contendevano il turno per la consegna a domicilio: Segnerì, add'à spettà u turne: mó si venèuete (Signora, devi aspettare il turno: ora sei arrivata). Risposta: Cé stè mbriache, segnerì da d'ó veìne, sì pe l'émòere de Ddàie, Criste méie (Sei ubriaca, signora da dove vieni, sia per l'amore di Dio, Cristo mio). Botta: Né stóeche mbriache, facce de mmèrde (Non sono ubriaca, faccia di merda). Risposta: E' mégghie cà te ne vè dadd'ó, putténe (è meglio che vada via di qua, donnaccia). La situazione sarebbe giunta fino alle estreme conseguenze, se Michelino non fosse intervenuto per sedare gli animi troppo agitati di quelle due donne. Stìteve citte! Uannà (rivolto al ragazzo portatore dei tegami), puerte re turtìere de chèsse do fèmmene, pràime ca me vèine la suste e re sbatte ddaffòere (State zitte! Ragazzo, porta insieme i tegami di queste due donne, prima che mi arrabbi e le sbatta fuori). A volte, vuoi per la fretta, vuoi per la disattenzione del ragazzo, qualche tegame di minestra si rovesciava a terra durante il tragitto. Altre litanie da parte del soccombente: Mequate fragete, cé si ffàtte? (Bacato fradicio, che hai fatto?), Crennéute, mó cé amm'é mengià a mézzadàie? (Cornuto, ora che mangeremo a mezzogiorno?). Risposta del ragazzo: Né re ssò fatt' appóste (Non l'ho fatto apposta). Replica: Statte citte, chéchéiele, scettà u venéine dé nghénne. (Sta' zitto, stupido, butta il veleno). L'incidente aveva un seguito al forno, quando, dovendo il ragazzo dare a Michelino il rendiconto finanziario delle sue consegne, costui lo copriva di parolacce, essendo costretto a risarcire il malcapitato cliente, per salvare l'immagine del suo forno. Sono aspetti d'un mondo che non c'è più e di cui sopravvive qualche sparuto esempio. I forni residui non costituiscono più luogo di ritrovo, pacifico o polemico, dei vicinati, qualche forno s'è evoluto in pizzeria, ma il popolo d'oggi ha difficoltà a raggiungere quel qualche forno sopravvissuto: la città oltre tutto s'è dilatata a dismisura. Solo i nostalgici della bontà particolare dei cibi cotti nel gran forno a legna si sottopongono alla “fatica” di raggiungerlo per lo più in automobile. E bisogna andare a ritirare il proprio tegame. Ai giovani può piacere conoscere questi aspetti della loro città, scomparsi o in via d'estinzione, a noi tocca ricordare e lasciare la memoria ai “posteri”. E mi sia concesso a proposito di forni, ma maggiormente a proposito di ciò che è scomparso per sempre, dire insieme con Dante: “Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri” (Inferno XVI, 12), perché è la città della mia fanciullezza (e giovinezza) che muore. Cosmo Tridente
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