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“Tutto era sconvolto nel terrore”
15 aprile 2020

Era il 435 avanti Cristo. Inizia la guerra del Peloponneso, una delle più lunghe e sanguinose dell’antichità. Con alterne vicende, Sparta ed Atene si affronteranno per trent’anni per la supremazia in Grecia, nell’Egeo, e nelle colonie. Tucidide, nato nel 460 ad Atene da ricca e nobile famiglia, protagonista e testimone di quegli eventi, sarà lo storico inimitabile del conflitto. All’inizio dell’estate del 430, gli Spartani, al comando di Archidamo, entrano in Attica, la devastano e assediano Atene, nella quale si rifugiano migliaia di abitanti delle campagne e delle cittadine limitrofe, accampandosi ed affollandosi promiscuamente in tutti gli spazi disponibili. Dopo pochi giorni, scoppia in città la peste. Tucidide fu colpito dal morbo, ma, a differenza di Pericle, sopravvivrà. Nel 424, eletto stratega, è incaricato di difendere il settore settentrionale dell’impero marittimo ateniese. Ancorato a Taso con una flottiglia di triremi, non fa in tempo a soccorrere Amfipoli, città strategica della Tracia, che si arrende al generale spartano Brasida. Ritenuto responsabile della sconfitta, fu esiliato per vent’anni. Amnistiato, torna ad Atene nel 404, dedicandosi alla stesura del suo capolavoro, che resterà incompiuto. Nello stesso anno Sparta sconfigge definitivamente la rivale, imponendole durissime condizioni di pace. Tucidide muore intorno al 400, forse per morte violenta. La descrizione della peste è uno dei passi più noti della letteratura storica universale. Le poche note che seguono hanno solo l’intento di proporre qualche paragone con l’attuale pandemia e magari di indurre qualcuno a leggere per intero lo splendido originale. Né è il luogo di parlare estesamente della “visione” storica tucididea: fredda, agnostica, razionale, fedele ai fatti, impareggiabile nel nascondere, lasciandola però sottesa, la carica emotiva che la sorregge. Basterà riportare il finale del colloquio fra i magistrati dell’isola di Melo e gli ambasciatori ateniesi. Questi pretendevano che l’isola abbandonasse la neutralità fra le due potenze elleniche, e si schierasse apertamente con Atene. Messi alle strette, i Melii invocano infine la giustizia divina. La risposta degli Ateniesi è agghiacciante per la ferrea logica dell’argomentazione, e per l’impossibilità di ogni replica: “Quanto alla benevolenza degli dei, neppure noi temiamo di essere da loro abbandonati, poiché nulla pretendiamo di giustificare, e nulla facciamo che sia estraneo a quello che degli dei pensano gli uomini, e da quello che gli uomini pretendono per loro stessi. Riteniamo infatti che gli dei, a quanto sembra, e chiaramente anche gli uomini, tendono sempre, per necessità di natura, a dominare ovunque prevalgano per potenza. Questa legge non l’abbiamo stabilita noi, e non siamo nemmeno stati i primi ad applicarla. Ce ne serviamo, così come l’abbiamo ricevuta, e come la lasceremo ai tempi futuri, eternamente valida, ben sapendo che anche voi, come chiunque altro, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto”. I Melii decisero di restare neutrali, ma pagarono con lo sterminio la loro resistenza. Tornando alla peste, vediamo di scomporre i vari elementi della testimonianza tucididea. Innanzitutto, una dichiarazione di metodo, tipica dell’autore: “Dunque, su questo malanno ognuno dica pure quello che pensa, dotto o meno nell’arte medica: donde è probabile che abbia avuto origine, e quali ragioni egli ritiene sufficienti perché un siffatto disastro con tanta violenza si sia scatenato. Io, per conto mio, dirò come si è manifestato e con qual sintomi: così che, se un giorno dovesse tornare di nuovo ad infierire, ognuno che sia attento, conoscendone già da prima le caratteristiche, abbia modo di sapere di che si tratta. Tutto chiaramente esporrò, perché io stesso l’ho sofferto e ho visto molti colpiti dal contagio”. Segue poi una accurata descrizione dei sintomi che dalla perfetta salute portavano il singolo alla morte. L’andamento è, al solito, freddo e “scientifico”: uno straordinario documento di semeiotica antica. Per motivi di spazio, possiamo solo rimandare il lettore all’esame dell’originale. A cominciare dall’età moderna, ma soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento, la scienza medica ha studiato il testo tucidideo, cercando di dare un nome certo a quella epidemia. Tifo esantematico? Febbre emorragica virale? Febbre tifoide? Una risposta definitiva non esiste, soprattutto perché la sintomatologia descritta dallo storico greco appare oggi clinicamente contraddittoria, ed impedisce di riferirla con certezza ad un morbo contemporaneo scientificamente classificato. Tuttavia, se Tucidide per ovvi motivi può considerarsi datato per l’aspetto scientifico della sua testimonianza, resta tuttora valido per la rappresentazione psicologica del dramma. Vediamone un brano: “Ma di tutto il male, la cosa più terribile era lo scoramento dal quale venivano presi quando s’accorgevano di aver contratto il morbo, e siccome cercavano di curarsi l’un l’altro, morivano di contagio come le pecore. Ciò provocò la più vasta mortalità. Se per timore del contagio evitavano d’accostarsi, morivano poi in solitudine, e molte case si spopolarono perché mancava chi prestasse le cure necessarie. Se poi qualcuno si avvicinava agli appestati, moriva ugualmente: ed erano soprattutto quelli che volevano dar prova di magnanimità. Spinti dal senso dell’onore, mettevano a repentaglio la vita visitando gli amici, mentre al contrario anche i loro congiunti, vinti alla fine dall’orrore del male, non riuscivano più a sopportare i lamenti dei moribondi. Maggior compassione tuttavia, mostravano verso chi moriva e chi col male lottava, coloro che erano sfuggiti alla violenza della peste, sia perché essi stessi prima avevano provato qual sofferenza fosse, sia perché erano ormai al sicuro: non si ricadeva infatti una seconda volta nel male, o almeno l’eventuale ricaduta non portava alla morte”. Il perdurare dell’epidemia finisce con il produrre turbamenti anche nel sentire e nell’agire sociali. Alcuni di essi possono sembrare lontani dalla nostra sensibilità, e da quello che, posti nelle stesse condizioni, riteniamo potrebbe essere oggi il nostro comportamento. Ma proprio la lezione del grande storico ci impone di essere molto cauti nel prevedere apoditticamente le alterazioni delle dinamiche sociali in situazioni estreme: “Cominciò allora in città, per la prima volta ed in seguito alla malattia, una maggiore sfrenatezza di fronte alla legge: e molto più arditamente, molti osavano ciò che prima si guardavano bene dal fare a piacimento. Si assisteva ad improvvisi capovolgimenti di fortuna, così che, considerando ugualmente instabili tanto la propria vita quanto le ricchezze, decidevano di doversi affrettare a godere dei beni e dei piaceri. Ormai, tutto ciò che era piacere immediato, era considerato onesto e utile. Nessun timore degli dei, nessuna legge umana valevano a trattenerli: quanto agli dei, pensavano che non avesse importanza venerarli o meno, al vedere che tutti allo stesso modo erano travolti nella rovina. Quanto alle colpe verso gli uomini, nessuno sperava di poter vivere fino a dover subire un processo e scontare la pena relativa: molto più grave era il castigo, già decretato, che pendeva loro sul capo: prima che ne fossero travolti, valeva la pena di godere qualche gioia della vita”. Queste le brevi note che ho ritenuto di riportare sul grande affresco tucidideo. La fortuna dello storico greco durò inalterata nei secoli. Intorno alla prima metà del I° secolo avanti Cristo, il poeta latino Tito Lucrezio Caro terminava il suo capolavoro in esametri “De rerum natura”, con una descrizione della peste ateniese direttamente derivata, nei fatti, dalla narrazione di Tucidide, ma assai diversa nello spirito e nelle intenzioni. A parte qualche accenno di Cicerone, nulla sappiamo della vita di Lucrezio; per fortuna il suo poema, diviso in sei libri, ci è giunto per intero. Esso illustra la figura e la dottrina di Epicuro con commossa ammirazione e pathos poetico. Il cosmo come una armonia sterminata che vibra di un flusso eterno di vita, in un perpetuo divenire delle cose, che si offrono a sensi ed alla ragione dell’uomo. La storia dell’umanità è quella di una lotta per l’esistenza. C’è una sola legge, un solo movente decisivo cui fin dal principio obbedisce il genere umano: la legge che assicura la vita e la continuazione della specie. Non è una legge morale, non è un moto consapevole che parta da un principio trascendente: è un istinto, una primordiale esigenza che induce l’uomo a difendersi, ad affermarsi, a cercare un benessere sempre maggiore, in una lotta da cui via via scaturiscono le più elevate o le più basse manifestazioni della natura umana. In questa lotta, vita e morte, felicità e disperazione, fortuna e disastri, si alternano senza soluzione di continuità, senza che una abbia più senso dell’altra, nell’infinito ed eterno movimento degli atomi. Vediamo insieme, per concludere, un brano tratto dal racconto della peste, pregno di quel pathos lucreziano così diverso dal freddo distacco dello storico greco. Con questi versi termina il “De rerum natura”: “La morte aveva riempito di corpi senza vita tutti i luoghi sacri agli dei, e ovunque i templi dei numi celesti rimanevano tutti stracolmi di cadaveri; i custodi avevano affollato questi posti di ospiti. Infatti né la religione divina, né gli dei avevano più importanza: era più forte il dolore presente. Non restava nella città quel rito di sepoltura che nel passato quel popolo aveva per tradizione seguito nei funerali; tutto era sconvolto nel terrore, ed ognuno seppelliva piangendo i suoi cari, dopo averli composti come poteva. La fretta e la misera li costrinsero a fare molte cose tremende: deponevano i propri cari tra lacrime ed urla in cima ai roghi eretti per altri, e gettavano al suolo le fiaccole: spesso lottavano, coperti di sangue, per non abbandonare quei corpi”. © Riproduzione riservata

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