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Teatrermitage: Alice nel Paese delle meraviglie
01 aprile 2004

MOLFETTA – 1.4.2004 Talora, dalla rivolta contro un sapere pedante, di cui emblema è un libro senza dialoghi né figure, e dal desiderio di ascoltare fiabe, innato nell'animo umano (l'apostrofe al pubblico della 'Favola del figlio cambiato' di Luigi Pirandello), possono derivare effetti incontrollabili... È il principio dell'onirico e iniziatico viaggio di Alice nel 'Paese delle Meraviglie', nel riadattamento del testo di Lewis Carroll operato da Vito D'Ingeo (anche regista) e allestito dal 'Teatrermitage'. Sullo sfondo di una scenografia essenziale (curata da Paolo Baroni e Annalisa Pellegrini), in un costante moto rotatorio, simbolico rinvio alla circolarità del percorso di crescita d'ogni individuo, Alice (la bravissima Giulia Petruzzella), irresistibilmente attratta da un insolito coniglio, le cui insegne sono orologi (il tempo ricorre quale ossessivo refrain nei dialoghi), s'infila nella sua tana, scivolando così in un tunnel, che sembra alludere al viaggio di fuoriuscita dall'utero materno, per poi penetrare in un regno popolato da esseri ben fuori dal comune. 'Qui siamo tutti matti', sentenzia un curioso gatto, che appare e scompare, insinuando nella povera Alice il dubbio di essere ammattita ('Mi era capitato di vedere un gatto senza sorriso, ma mai un sorriso senza gatto!'), in una progressiva perdita d'identità. 'Sono forse Ann? O Mabel?' In questo straniante reame le certezze vacillano: '4 x 5 = 12. Londra è la capitale di Parigi!'; non serve richiamare alla mente immagini quotidiane e rassicuranti per ovviare a una montante inquietudine. Il ricordo della gattina domestica produce solo la mortificante consapevolezza ch'essa non potrebbe nulla contro i pipistrelli, subentrati ai topi nella scala di ciò che di più perturbante esista al mondo. O forse la realtà va solo ridisegnata? 'I gatti mangiano i pipistrelli?'. Il viaggio di Alice è soprattutto una labirintica incursione nei meandri della lingua. Fuori dal misterioso mondo in cui è stata catapultata (ipostasi dei 'paradisi artificiali'), Alice raggiunge la consapevolezza che 'Mi piace tutto ciò che prendo' non ha il valore di 'Prendo tutto ciò che mi piace'. Nel reame dei sogni, se non si conosce il senso di un termine (l'Accavallavacca del Brungo, bruco+fungo), esso assume il significato che più si desidera e le parole sono impiegati ansiosi di pagamento-appagamento da parte dei datori di lavoro. Tra cappellai matti, condannati, per aver 'ammazzato il tempo', a un eterno the delle sei del pomeriggio, Lepri Marzoline, furbe scopritrici della maggiore utilità di festeggiare i 'non compleanni', e Bianconigli ossessionati dal ritardo, il rischio che si corre è quello di 'perdere la testa'. E chi può rappresentarlo meglio di un'isterica regina, cui spetta il compito di accendere la luce nel buio di un viaggio a tratti indecifrabile? In un processo simbolico a ruba-crostate, in cui la giustizia è rappresentata da un re fantoccio che la Regina (convinta che l'esecuzione alla ghigliottina debba precedere la sentenza di condanna) manovra da ventriloquo esperto, Alice scaccia con veemenza gli inquietanti parti del suo immaginario, per poi risvegliarsi in compagnia di Mr. Dogson, caro dispensatore di racconti. Un plauso agli attori: Giulia Petruzzella, perfetta incarnazione dell'eroina di Carroll, il simpaticissimo Corrado La Grasta, efficace specialmente nei panni del gatto dall'accento francese e dell'improbabile e sanguinaria Regina, Silvia Mastropasqua, di cui si ricordi l'interpretazione della Tartarughina, fautrice di una scuola in cui le usuali materie perdono le consuete denominazioni e i 'nomi' sono 'pomi' e gli 'avverbi' 'avvermi'. Curati i costumi (di Eugenia Spaccavento, anche coordinatrice organizzativa, e Riccardo Mastrapasqua), efficaci i tempi scenici. Lo spettatore si lascia incantare e, identificandosi con Alice, avverte un progressivo disorientamento, salvo scoprire, sollevato, che il viaggio è stato un sogno e i confini del proprio quietante orticello non sono stati intaccati. Rimangono un vago senso di nostalgia e un lieve, quasi impercettibile, desiderio di fiabe... Gianni Antonio Palumbo
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