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Storie dell'Africa Orientale Italiana
15 maggio 2012

Sommerse dalla grande Storia, alcune piccole storie di personaggi marginali possono emergere qua e là dal contesto generale, accanto a figure di rilievo, grazie a indagini mirate, anche in un teatro di guerra abbastanza studiato come quello dell’Africa Orientale Italiana. Agli inizi del 1941 l’Impero italiano era già condannato. Non lo aveva capito il tronfio Badoglio, responsabile occulto della disfatta di Caporetto, che prima di essere messo da parte in Africa, aveva espresso un assurdo ottimismo: «Non ho preoccupazioni per l’Impero. Si tratterà semmai di perdere qualche posizione». Al contrario il viceré d’Etiopia Amedeo d’Aosta, che disponeva di 100.000 soldati nazionali e di 200.000 indigeni, ma era fortemente carente nell’artiglieria contraerea e di media gittata e nell’aviazione, guardava le cose con più realismo. Infatti, nel settembre del 1940, aveva scritto nel suo diario: «Il nemico è libero di fare impunemente tutto quello che vuole, abbassarsi a dieci metri per mitragliare un autocarro isolato o tre fusti di benzina […] Oggi in tutto l’Impero, che è vasto sei volte l’Italia, ci sono 6 batterie contraeree (di cui quattro antiquate) e 4 batterie da 20 millimetri. Di caccia efficienti ne abbiamo sì e no una trentina». È vero che tra il novembre del ‘40 e il marzo del ‘41 lo Stato Maggiore di Roma inviò in Etiopia 51 caccia C.R. 42 e 23 bombardieri S 79, ma era troppo poco per controbilanciare il dominio aereo della R.A.F., considerando che i restanti 221 aerei italiani erano antiquati o malridotti. Nell’inverno 1940- 41 gli inglesi ammassarono contro l’Impero italiano 250.000 uomini armati modernamente con divisioni corazzate e autotrasportate e col supporto dell’aviazione, agli ordini dei generali William Platt a nord e Alan Cunningham a sud. La tenaglia britannica muoveva dal Sudan, con truppe britanniche, indiane e indigene, e dal Kenia, con reparti sudafricani bianchi e contingenti kikuyu e bantu. Per la crisi dei trasporti dovuta a carenza di autocarri, carburante e gomme, gli italiani non erano in grado di manovrare con rapida efficacia, ma nel novembre del 1940 respinsero vigorosamente l’attacco inglese sul fronte sudanese a Gallabat e a Metemma. A causa della forte pressione inglese nella zona di Cassala, il comando dell’Africa Orientale Italiana, ormai isolato dalla madrepatria e dalla Libia, il 18 gennaio 1941 decise di abbondonare la città sudanese. I 136 carri armati leggeri e i 35.000 uomini perlopiù appiedati del gen. Luigi Frusci ripiegarono su Agordat in Eritrea, falcidiati dalle autoblinde e dai carri armati pesanti britannici. Ad Agordat la IV divisione Coloniale al comando del colonnello Orlando Lorenzini, formata da 10 battaglioni di àscari, un battaglione di Camicie Nere, dai resti dello squadrone di cavalleria amhara del tenente Amedeo Guillet e da una compagnia di marinai tedeschi, tenne duro dal 26 al 31 gennaio. Il ripiegamento e la difesa costarono gravissime perdite agli italiani (14.000 coloniali e 1.260 nazionali). In séguito allo sfondamento operato dagli highlander scozzesi, gli italiani arretrarono su Cheren, una conca circondata da monti scoscesi, dove dal 2 febbraio fu ingaggiata una lunga battaglia con accaniti scontri di pattuglie. Dopo una decina di giorni di assalti, il gen. Platt, che si avvaleva di 30.000 soldati della IV divisione angloindiana, sospese l’offensiva, affidando alla R.A.F. il compito di scompaginare le difese italiane, tenute da soli 6.000 uomini al comando del brillante gen. Nicola Carnimeo. Gli aerei italiani erano stati quasi tutti abbattuti e i pochi rimasti erano stati concentrati «di riserva» a Massaua, nel cui Sacrario militare verrà sepolto il ventiseienne Giuseppe Germinario di Cosmo Damiano e Maria De Bari, morto il 1° marzo 1941. Intanto si svolgeva in Somalia una violenta offensiva inglese, che, anche per lo sbandamento di truppe irregolari e la diserzione di battaglioni indigeni, consigliò al comando italiano di sgomberare senza forti resistenze Chisimaio il 14 febbraio e Mogadiscio il 26 successivo. A Cheren, dove per gli italiani giunsero 7.000 uomini di rinforzo e per i britannici 21.000, i combattimenti si fecero sempre più aspri e sanguinosi, fino a costare circa 50.000 fra morti e feriti a entrambe le parti. Per maggio si arresero, ricevendo il 19 l’onore delle armi. Tra i caduti dell’Amba Alagi vi fu il trentottenne molfettese Antonio Zaza, morto il 3 maggio 1941. Quindici giorni dopo periva in combattimento ad Alfrora il geniere trentatreenne Sergio Balacco di Domenico e Chiara Introna, pure di Molfetta. L’11 giugno forze navali alleate bombardarono e occuparono la rada di Assab. Nel Gimma un altro contingente di 5.000 nazionali e 2.000 etiopi, agli ordini del gen. Pietro Gazzera, dopo una resistenza elastica, quando gli inglesi il 4 luglio giunsero a Dembidollo, si consegnò ai reparti congolesi del generale belga Auguste-Eduard Gilliaert il 6 luglio con l’onore delle armi, ma l’8 vi furono scontri fra i vendicativi abissini e coloniali del gruppo Dubat, aggrediti e falciati a fucilate dopo la consegna delle armi. I ridotti di Debra Tabor e Uolchefit furono sopraffatti per fame rispettivamente il 6 luglio e il 28 settembre, con l’onore delle armi. Nella città di Asmara, dopo l’annessione inglese, vi furono disordini e violenze da parte dei nativi. In questo clima, persero tra gli altri la vita due molfettesi: il quarantunenne soldato Natale Caputi di Nicolò e Isabella Amato, morto il 25 settembre 1941, e il trentenne agente di P. S. Cosmo Binetti, deceduto il 26 ottobre seguente. Presso la Sella di Culqualber il 21 novembre il 1° gruppo mobilitato Carabinieri e Zaptié e il CCXL battaglione Camicie Nere, asserragliati dal 6 agosto, s’immolarono quasi totalmente, con 513 morti e 404 feriti, combattendo fino all’arma bianca. A sua volta l’abile generale Guglielmo Nasi si distinse a Gondar con 13 battaglioni nazionali, 15 coloniali, 3 squadroni di cavalleria, 71 cannoni e 18 mortai, in una strenua difesa che suscitò l’ammirazione degli inglesi. Il presidio di Gondar, dopo aver subito devastanti bombardamenti aerei e massicci attacchi di forze inglesi e abissine di molto superiori, stremato, si arrese il 27 novembre, ottenendo l’onore delle armi. Il 30 novembre i reparti assediati dei vicini capisaldi di Ualag, Chercher, Celgà e Gorgotà deposero le armi. Così, con una strategia difensiva nel complesso mediocre, ma con belle pagine di gloria, l’Africa Orientale Italiana cessava di esistere. Nei combattimenti di Gondar, su 17.000 nazionali e 23.000 coloniali, rimasero feriti 8.400 difensori e morirono 3.700 ascari e 300 italiani. Tra questi vi fu anche, il 27 novembre 1941, il milite Tommaso Mongelli fu Felice e di Maria Laura Boccassini, nato a Molfetta il 7 marzo 1897. Reduce della Grande Guerra e scalpellino, aveva lavorato nella prima metà degli anni Trenta al Lungomare di Bari. Nel 1936 si era recato per lavoro in Abissinia. Nel 1937 lavorò a Macallè in una di quelle «centurie di lavoratori » volute da Mussolini. Nel 1940 risultava già arruolato nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Morendo, lasciò nel dolore e nelle ristrettezze la moglie Elisabetta Fornari, che aveva avuto due figlie e un figlio da lui e due figlie dal precedente matrimonio con Luigi Pasculli, morto ventinovenne in guerra a Oppacchiasella (oggi Opatje selo) il 14 settembre 1916. In patria Mongelli fu considerato per disperso, fino a quando, nel 1948, un suo commilitone, Primo Paolo Dirosato, liberato da un campo di prigionia, forse keniota, testimoniò sul suo decesso in combattimento. Per l’Africa Orientale Italiana erano morti oltre 5.000 italiani e 10.000 indigeni, mentre 100.000 soldati vennero avviati per la maggior parte nei campi di concentramento del Kenia e dell’India. Amedeo di Savoia, terzo duca d’Aosta, si ammalò gravemente in prigionia. Il 3 marzo 1942, a 44 anni, morì di tubercolosi nell’ospedale militare di Nairobi. Nonostante l’offerta di liberazione dei sovrani inglesi, non aveva voluto lasciare i suoi uomini, molto più nobilmente di Vittorio Emanuele III, che tra l’8 e il 9 settembre 1943 preferirà fuggire da Roma per Brindisi, abbandonando alle rappresaglie tedesche e al più completo marasma il popolo e l’esercito italiano, privo di precise direttive.questo Churchill, nelle sue memorie, definì l’epico scontro «forse la battaglia più importante di tutta la seconda guerra mondiale». Nonostante la difesa eroica dei reparti italiani e degli àscari eritrei e il sacrificio del gen. Lorenzini, morto il 17 marzo alla testa della provata II Brigata Coloniale, il presidio di Cheren, stretto da un durissimo assedio, per carenza di viveri e munizioni dovette arrendersi il 27 seguente. Solo fra il 23 e il 26 marzo gli italiani avevano avuto 1.000 morti e 2.300 feriti, che andavano ad aggiungersi alle vittime civili dei continui bombardamenti aerei inglesi effettuati su Asmara in febbraio e marzo per terrorizzare la popolazione. Proprio in marzo, quando le riserve di carburante erano quasi esaurite e le truppe britanniche stavano per sfondare la linea difensiva di Cheren, Supermarina decise di fare rientrare nella base atlantica di Bordeaux gli ultimi quattro sommergibili di Massaua, Gugliemotti, Ferraris, Archimede e Perla, tentando il periplo dell’Africa con un rischioso viaggio senza scalo di oltre 14.000 miglia. Il 1° marzo il piccolo Perla lasciò Massaua, seguito due giorni dopo dagli altri tre sottomarini, che uno dopo l’altro raggiunsero la base italiana di Betasom a Bordeaux, riforniti di nafta a metà strada dalla petroliera germanica Nordmark. Il Guglielmotti impiegò 64 giorni. Il Perla, rifornito dall’incrociatore corsaro tedesco Atlantis già nelle acque del Madagascar, ne abbisognò di 80. Verso la fine di marzo, poi, Supermarina permise che le unità di superficie del Mar Rosso a bassa autonomia, cioè i cacciatorpediniere pesanti Leone, Pantera e Tigre, e i cacciatorpediniere leggeri Sauro, Manin e Battisti, invece di autoaffondarsi, si sacrificassero in un attacco suicida rispettivamente contro Suez e Port Sudan. Contemporaneamente le unità ausiliarie a lunga autonomia, Ramb I, Ramb II e la nave coloniale Eritrea, avrebbero dovuto tentare di raggiungere il Giappone, per operare in Pacifico come navi corsare, mentre la Ramb IV doveva essere trasformata in nave-ospedale. Essendo venuta meno la copertura aerea tedesca proveniente da Creta, il 31 marzo Supermarina optò per un attacco congiunto delle due squadriglie contro Port Sudan, distante 300 miglia. L’intera navigazione si sarebbe dovuta svolgere di notte e a tutta velocità per evitare di essere individuati dalla Royal Navy e dalla R.A.F. che, dopo la caduta di Cheren e la distruzione di quasi tutta la residua aviazione italiana in Africa Orientale, dominava incontrastata i cieli del Corno d’Africa. Venuto meno il Leone per l’urto contro uno scoglio e un incendio a prua il 31 marzo, i restanti cinque cacciatorpediniere salparono da Massaua alle 14 del 2 aprile, ma già dopo due ore furono attaccati da ricognitori nemici. Il Battisti, rallentato da un’avaria, andò ad autoaffondarsi sulla costa araba. Gli altri quattro proseguirono il viaggio notturno, ma verso le 7 del 3 aprile, quando erano in vista di Port Sudan, vennero aggrediti ad ondate da una settantina di bombardieri Bristol Blenheim e di aerosiluranti Swordfish. Gli assalti si scatenarono soprattutto sulle unità minori Manin e Sauro, mentre il Tigre e il Pantera, per evitare una divisione navale inglese gettatasi all’inseguimento, si autoaffondarono sulle sponde arabe. Dopo due ore di accanito combattimento aeronavale, il Sauro fu centrato da una bomba, esplose e affondò con quasi tutto l’equipaggio. Il Manin continuò a lottare eroicamente per quattro ore, finché non fu devastato da due grosse bombe, perdendo gran parte della ciurma. I superstiti salirono su due imbarcazioni. Una lancia approdò dopo alcuni giorni sulle coste dell’Arabia Saudita, dove i naufraghi vennero internati. L’altra scialuppa, con molti uomini aggrappati fuori bordo col mare infestato da pescicani, fu soccorsa casualmente dopo tre giorni da uno sloop inglese. Nel combattimento aeronavale del 3 aprile 1941 perse la vita il ventunenne fuochista molfettese Pasquale Allegretta di Mauro e Grazia Cantatore, mentre il concittadino marò Cosimo De Pinto di Giuseppe e Maria Mezzina, catturato dai nemici, morirà in prigionia a 37 anni in Africa Orientale il 26 novembre 1941. Nel frattempo sulla terraferma gli italiani avevano abbandonato, nello scacchiere sud, Burgi e Neghelli, nello scacchiere est Harar e, nello scacchiere nord, Dire Daua e Asmara il 2 aprile. Poi il 6 fu la volta della capitale dell’Impero, Addis Abeba, dove erano morti due molfettesi: il soldato venticinquenne Antonio Mastropierro di Gaetano e Rosa Murolo, il 9 febbraio 1940, e il trentunenne Pietro Marchitelli fu Vincenzo e di Nicoletta Maria Pipoli, il 31 gennaio 1941. Nell’imminenza della caduta di Massaua, per ordine del contrammiraglio Mario Bonetti, i marittimi italiani autoaffondarono fra il 3 e il 6 aprile 1941 nel porto, alle isole Dahlak e al Gubbet 14 navi mercantili, mentre altre 10 di maggiore autonomia furono avviate verso il Giappone. L’8 aprile Massaua, difesa da poche centinaia di marò, da gruppi di finanzieri e dall’11° reggimento granatieri reduce da Cheren, dovette arrendersi alle soverchianti forze nemiche. Il quarantottenne militare molfettese Pantaleo Binetti di Mauro e Margherita Binetti, fatto prigioniero, morirà il 5 agosto 1941 nell’Ospedale “Umberto I” di Massaua. Degli equipaggi delle navi autoaffondate vennero catturati tra gli altri due marittimi civili molfettesi: il cinquantottenne Giuseppe Cappelluti di Giuseppe e Maria Giuseppa De Gioia, del piroscafo misto Tripolitania, che perirà nel campo di Embatkalla, in Eritrea, il 19 settembre 1941 e Muti Cosmo di Sergio, del piroscafo da carico Romolo Gessi (ex Alberto Treves), che morirà in prigionia ad Asmara il 17 luglio 1944. Dopo la perdita di Asmara. benché gli fosse stato messo a disposizione l’ultimo aereo S 79 in grado di compiere un volo diretto Etiopia-Italia, Amedeo d’Aosta si rifiutò di salvarsi fuggendo. L’11 aprile 1941 il presidente Franklin Delano Roosevelt dichiarò navigabile il Mar Rosso per le navi statunitensi che portavano ingenti aiuti e rifornimenti agli inglesi. Il 5 maggio il negus Hailé Selassié poté fare il suo ingresso trionfale in Addis Abeba. La lotta proseguì nel Tigrai, nel Galla-Sidamo e intorno a Dessié. Un’asperrima battaglia fu ingaggiata attorno all’Amba Alagi, dove i 7.000 soldati del Duca d’Aosta, dopo tre settimane d’incredibile resistenza, il 17

Autore: Marco I. de Santis
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