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Santi inventati o quasi I nostri detti memorabili
15 giugno 2001

di Marco de Santis Il pantheon popolare è ricchissimo di santi noti e dimenticati, autentici e fittizi. Fra i santi inventati miracolosi, quello più vistosamente segnato da appetiti terreni e venali è Sêndë Mêngiòënë, ca nêscì primë dë Cristë, San Mangione, che nacque prima di Cristo. Di lui un proverbio diffuso nel Meridione dice: Sênd’Êndónjë në fascë trìdëcë, Sêndë Mêngiòënë në fascë quattùërcë, Sant’Antonio ne fa tredici (di grazie), San Mangione ne fa quattordici. Potenza delle bustarelle! Meno esigente, ma ugualmente arraffone è Sêndë Ar(r)ësìëdjë, San Repulisti, che mette le mani su tutto quanto gli viene a tiro. Il suo verbo preferito, ovviamente, è arrësëdià ‘nettàre, ripulire’ (forma denominale dal latino residuum ‘residuo, rimanenza’). È invocato dai festaioli impenitenti, che amano andare a zonzo per feste e fiere e soprattutto banchettare e gavazzare alla minima occasione. Un beato da cui occorre guardarsi è Sêndë Mifrìëchë, San Mifreghi, un celeste santarellino che ama gabbare il mondo e che perciò spessissimo assume sembianze umane. Suo degno compare è Sêndë Frëchëtùssë, San Buggerone, il cui nome il popolino ha rifatto paretimologicamente sul verbo frëcà ‘fregare, buggerare’ (dal latino fricare ‘sfregare, strofinare’ e con valore osceno ‘coire’), partendo da sanctus fructus dopo aver orecchiato mille volte in chiesa il fructus dell’ “Ave Maria” e della “Salve Regina” recitate in latino. Altro santo inventato è Sêndë Rëcùpëtë, San Ricupero, il refugium peccatorum degli opportunisti senza dignità, il protettore di chi, in mancanza di meglio, ricorre ad alternative di ripiego. Fa il paio con lui Sêndë Rësùsscëtë, San Resuscita, il deus ex machina delle situazioni improbabili, la pezza a colore dei disperati. L’unica santa fittizia che figura nel repertorio popolare è stranamente dotata di attributi diabolici: Sênd’Ênnècchjë chë rë ccórnë e chë rë rrècchjë, Sant’Annecchia con le corna e con l’orecchia. Veniva invocata a Molfetta e in Terra di Bari come spauracchio per i bambini, ma non era altro che la castagna d’acqua, la Trapa natans di Linneo, usata come amuleto. Un santo relegato in soffitta, tra le cianfrusaglie dei motti scherzosi, è Sêndë Lïùzzë. Di lui si diceva e sempre meno si dice: Sêndë Lïùzzë: nu scarpë e nu spreduzzë, San Leùccio: una scarpa e una babbuccia, bonaria facezia riservata a chi è per varie ragioni semivestito oppure indossa indumenti spaiati o male assortiti. Dietro questo santo bonaccione si nasconde in verità San Lèucio, titolare nel Medioevo di ben due chiese rurali affiancate da casali nell’agro di Molfetta: San Leucio in cavallaro, a sud-ovest presso la via di Ruvo, e San Leucio in deserto, a sud-est sulla via per Bitonto. Quest’ultimo toponimo nei fogli catastali è riportato come San Liuzzo e dai contadini è appellato Sêndë Lïùzzë. Un altro santo da burla è Sên Ghìnnë a la pênnéërë, San Pinco col vessillo, beffardamente evocato nelle risposte a chi domanda: Cé ssêndë è?, Che santo è?, cioè a chi chiede quale santo si festeggi, quale onomastico ricorra o quale protettore sia raffigurato dalla statua o dal quadro che si presenta alla vista dei dialoganti. Si tratta della deformazione di Sên Ghìrchë, più compiutamente Sêndë Chjìr(ë)chë, forma dialettale dell’agiotoponimo Santo Chierico o San Quìrico (dal latino medievale Quiricus e Quiriacus), varianti di San Cirìaco (in latino Ciriacus, dal greco Kyriakós). Anche in questo caso il nome rinvia a una chiesetta medievale con relativo casale sulla via di Ruvo. Nella zona i vecchi campagnoli ricordavano nella nicchia di un muricciolo l’immagine del santo con uno stendardo, Sên Ghìrchë a la pênnéërë appunto, memoria estrema dei ruderi del luogo sacro e del casale. Di qui al riuso oscenamente ironico di chinnë (voce assente dal Lessico della Scardigno, che invece riporta i sinonimi mènghjë e pizzë) il passo è stato breve. Gli ultimi esempi dimostrano che bisogna essere cauti di fronte a nomi di santi che sembrano fittizi ma potrebbero non esserlo o non lo sono affatto, di fronte ad agionimi che, nonostante il riutilizzo burlesco, conservano un fondo di verità storica. Per essi vale la regola dell’oblio, che non risparmia nemmeno gli scanni beati del paradiso: a ssêndë vìëcchjë nên z’appìccënë chjù chênnèëlë, a santi vecchi non s’accendono più candele. È quanto è accaduto anche per Sênd’Alìcënë e Sênd’Alò, che Rosaria Scardigno ritenne rispettivamente un “santo simbolico, cui si ricorre invocando punizioni” e un “santo inventato che protegge l’altalena” (Nuovo lessico molfettese-italiano, Mezzina, Molfetta, 1963, p. 468). Si tratta invece di Sant’Eligio, di cui si venerava, almeno dalla seconda metà del Seicento, una reliquia nel Duomo Vecchio di Molfetta. Poi il culto è caduto in disuso e nel secondo Ottocento il santo ha perso la sua identità, come documenta l’espressione fa u dësciàunë a Sênd’Alìcënë, fare il digiuno in onore di un santo cancellato dal calendario, digiunare invano, senza profitto. Così il beato (Sanctus Eligius) è stato confinato nelle imprecazioni, come Sênd’Alìcënë, scùërcëuë!, Sant’Eligio, scorticalo!, in origine riservato agli equini, ma alla fine esteso anche agli uomini. Sant’Alò, a sua volta, è forma concorrente della precedente per lo stesso santo, voce toscana e napoletana, prima ancora che molfettese. Nel Meridione è di tramite angioino, derivando dall’antico francese Saint Aloy, nome di Sant’Eligio, vescovo di Noyon-Tournai, protettore dei cavalli e dei maniscalchi. Di lui resta traccia nell’esclamazione curë Sênd’Alò!, quel benedett’uomo! quel tànghero!, interiezione ormai sostituita da curë Sênd’Êndónjë!, con uguale significato. L’ultimo ricordo di Sênd’Alò è rimasto legato al ritornello di un canto per l’altalena del giorno dell’Ascensione: E unë, e dduë, e ttrè, / Sênd’Alò, fàuuë cadè. / Ci nên gàtë, nê mmùërë mè, E uno, e due, e tre, / Sant’Alò, fallo cadere [dall’altalena]. / Se non cadi, non muori mai [non cedi mai il turno a chi spinge (cfr. Il canto dell’Ascensione e una ninna-nanna molfettese, Mezzina, Molfetta, 1979, pp. 29-31)]. Anche in Toscana la popolarità del santo è quasi completamente tramontata, rimanendo affidata solo a luoghi sacri, toponimi e a qualche espressione scherzosa: fare come Sant’Alò, che prima morì e poi si ammalò o fare come Sant’Alò, che lasciò il mondo come lo trovò. Un po’ irriverenti, questi toscani! N.B. Didascalia della foto: S. Ciriaco vescovo e martire (Cattedrale di Ancona, immagine graffita su lastra di marmo).
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