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Quel garibaldino suicida a Molfetta
15 marzo 2010

«1866 Giugno 23 ad ore 6 ant[imeridiane] nella casa del Signor Antonio Pappagallo in Via Cappuccini n. 31 (ora Margherita di Savoia) ove alloggiava, si suicidava il Cav. Specchi Eliodoro fu Giuseppe Colonnello dell’8° Reggimento volontari garibaldini, di anni 55, nato a Milano». Così si legge in uno zibaldone di notizie su Molfetta del primicerio Francesco Samarelli, conservato in un archivio privato. La notizia è di quelle che turbano, perché il suicidio molto spesso è l’atto conclusivo di una situazione di straripante disagio interiore. Ma chi era il colonnello Specchi? Cosa lo aveva spinto a quel tragico gesto all’inizio della terza guerra d’indipendenza? Eliodoro Spech – tale era il cognome anagrafico – era nato a Milano il 9 agosto 1810 da Giuseppe e Maddalena Pietralia, cantanti lirici. Come il padre, Eliodoro era diventato un bravo tenore, apprezzato interprete di Donizetti, Rossini, Pacini e altri compositori. Dal 1832 al 1855 aveva calcato i palcoscenici di Parma, Venezia, San Pietroburgo, Siviglia, dell’Avana e di New York. Frattanto gli ideali del Risorgimento avevano fatto breccia nel suo cuore e, dopo la campagna del Veneto, il 1849 lo aveva visto coprirsi di ferite in difesa della Repubblica Romana come caporale della legione bolognese. A Roma lo aveva conosciuto Garibaldi, divenendone amico e corrispondente. Andato esule in America, Spech era tornato in Italia nel 1855. Dall’ottobre di quell’anno, dovendo solo consegnare alcune lettere di un amico rimasto negli Stati Uniti alla famiglia Motta di Millesimo, in provincia di Savona, aveva finito per riceverne illimitata ospitalità. Da Millesimo il patriota spesso faceva lunghe passeggiate a piedi fino a Carcare, dove andava a trovare, nel collegio degli scolopi, padre Attanasio Canata, insegnante di Goffredo Mameli e Giuseppe Cesare Abba, il futuro autore di Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, che nel 1856 conobbe Spech e ne diventò amico. Abba notò che somigliava un poco a Vittorio Emanuele, aveva aspetto e attitudini marziali ed era un bravo tiratore con la carabina. Nel maggio del 1859, durante la seconda guerra d’indipendenza, il quarantottenne Spech era tra i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi, sottotenente della 2a compagnia del 1° battaglione del 1° reggimento al comando del tenente colonnello Enrico Cosenz. Ferito il 15 giugno nella battaglia di Treponti, Spech fu raggiunto a Brescia dalle congratulazioni scritte di Garibaldi, che era stato spettatore del suo ardimento. Fu quindi promosso luogotenente (oggi diremmo tenente). Poco dopo si trovava a Correggio, in provincia di Modena, col grado di capitano, depositario di carabine e baionette per conto di Garibaldi, il quale, da comandante in seconda, gli aveva chiesto di formargli una compagnia di bersaglieri per l’esercito della Lega dell’Italia centrale, che sarebbe dovuto penetrare nello Stato pontificio nella prospettiva di una ripresa della guerra d’indipendenza. Quando Garibaldi salpò da Quarto per la Sicilia non chiamò Spech con gli altri ufficiali ex cacciatori delle Alpi e l’escluso, pur senza mai accusare apertamente il generale, ne restò profondamente addolorato finché visse. Tuttavia partecipò alla conquista del Sud dal luglio del 1860, comandando, col grado di maggiore, il 1° battaglione bersaglieri nella brigata del generale Cosenz, che aveva organizzato un’altra spedizione di volontari per la Sicilia. Abba rivide Spech presso Messina infermo per una ferita riportata nei combattimenti di Milazzo e, sotto la data dell’11 agosto, lo ritrasse così in una delle sue Noterelle: «Artista e soldato, ha sparso del proprio sangue dovunque si è combattuto per la libertà, in Italia e fuori. Non è mai stato al fuoco che non abbia toccata una ferita. L’ultima l’ebbe a Milazzo. Il Dittatore gli vuol bene come a un fratello; perché hanno vissuto insieme pel mondo, dopo la caduta della Repubblica Romana, adorando e sperando». Abba lo rincontrò poi a Caserta dopo un nuovo ferimento subito il 2 ottobre nel parco della Reggia durante la battaglia del Volturno. Dopo il ritiro di Garibaldi a Caprera, Spech tornò al suo eremo di Millesimo col grado di tenente colonnello, ma ogni 4-5 mesi, dietro invito del venerato generale, raggiungeva l’isolotto sardo per ritemprarsi nello spirito. Da una monografia di Alfonso Scirocco sappiamo che nel febbraio del 1861 Garibaldi, vestitosi «con eleganza per la figlia Teresita», ballò «con lei un valzer suonato al pianoforte da Eliodoro Specchi». Abba, che andava a visitarlo spesso a Millesimo e che aveva intravisto nel più attempato amico «il freddo della vecchiaia incipiente», racconta che dal 1860 al 1865 «per lui parvero passati 20 anni. Non era più Specchi. Ma all’ordine che gli venne di andare a Molfetta, a pigliare un reggimento di volontari per condurlo a quella guerra sospirata» per Venezia, «si accese, credé di sentirsi forte e partì da Millesimo lieto sebbene certo di non ritornarvi mai più». In quel tempo si era ventilata l’idea di uno sbarco di garibaldini in Dalmazia per spingere alla rivoluzione gli Slavi e gli Ungheresi, i quali sarebbero dovuti insorgere contro gli Asburgo mentre Vittorio Emanuele II invadeva il Veneto. Con questo presupposto l’Italia, per la liberazione di Venezia, l’8 aprile 1866 firmò con la Prussia un trattato segreto di alleanza contro l’Austria, ma il progetto dello sbarco in Dalmazia fu abbandonato. Il 27 aprile, comunque, iniziò la mobilitazione dell’esercito italiano con la chiamata di 130 mila riservisti. Il 6 maggio, inoltre, un regio decreto istituì il Corpo Volontari Italiani affidandolo a Garibaldi e nominò una Commissione per l’arruolamento degli ufficiali garibaldini e per la formazione del Corpo Volontari. Il 16 successivo, da Firenze capitale, il ministro della guerra Pettinengo emanò una circolare che fissava l’ordinamento del Corpo articolandolo in 10 reggimenti di due battaglioni ciascuno. I battaglioni salirono poi a quattro per reggimento. Il 18 maggio la Commissione con una lettera propose al ministro della guerra di istituire a Como e a Foggia due Uffici di ordinamento. Poi la Commissione si affrettò ad avvertire il ministro che Foggia era infestata dalla malaria, per cui le subentrò Bari. Agli Uffici di ordinamento di Como e Bari, vennero alla fine aggiunti i centri di addestramento per i volontari di Varese, Bergamo, Gallarate, Molfetta e Terlizzi. Il Comasco e il Barese ben presto furono raggiunti da una miriade di idealisti desiframmenti di st oria Quel garibaldino suicida a Molfetta di Marco I. de Santis Centro Studi Molfettesi T U R A 23 15 marzo 2010 derosi di dar prove di valore, anche se non mancavano i mediocri, gli avventurieri e i malfattori, che varie volte furono estromessi. Nei centri di raccolta e nelle caserme scarseggiavano o mancavano del tutto le armi, le munizioni, i viveri, il vestiario e i mezzi. Nonostante queste gravi pecche, con l’aiuto finanziario dei comuni e l’ospitalità della popolazione più generosa, il 22 giugno il Corpo Volontari Italiani conterà più di 38 mila giovani e meno giovani accorsi per la patria. I primi cinque reggimenti di volontari si concentrarono in Lombardia; gli altri cinque in Puglia. Come sedi di formazione dei reggimenti furono scelte Bari e Barletta. Di qui le compagnie e i battaglioni furono dislocati nei paesi vicini: Modugno, Bitonto, Acquaviva, Capurso, Molfetta, Monopoli, Andria, Trani, Corato, Bisceglie, Terlizzi e Ruvo. A Bari, Barletta, Molfetta e altrove c’era grande animazione e, anche se vi furono diversi profittatori, i cittadini animati da spirito patriottico facevano a gara nell’accogliere i giovani convenuti da ogni parte d’Italia. Non mancarono naturalmente i volontari molfettesi, come il soldato Vincenzo Pappagallo, il tenente Michele Valente e il colonnello Liborio Romano (su cui v. Ignazio Pansini, È garibaldino? Processiamolo, in «Quindici», n. 7, 15 luglio 1998). Il ventiquattrenne Ilarione Salvemini, futuro padre di Gaetano Salvemini, addirittura scappò di casa per arruolarsi tra i garibaldini, ma la guerra terminò prima che raggiungesse il campo di battaglia. Nella città delle ardimentose paranze – scrive Mauro Altomare in Molfetta nel Risorgimento – «non vi fu casa di famiglia per bene del paese che non avesse avuto ad alloggiare degli ufficiali e sotto ufficiali; non ci furono vestiboli di palazzi, atri di chiese, tende mal piantate al largo Principe Umberto, che non avessero avuto a raccogliere le armi e ad alloggiare le parecchie centinaia di soldati». I volontari venuti a Molfetta furono inquadrati nell’8° reggimento affidato al colonnello Specchi. Erano in buona parte toscani, campani, siciliani, veneti, liguri, lombardi, emiliani e romagnoli. Giuseppe Cesare Abba da Pisa venne a Bari e si arruolò come sottotenente nel 7° reggimento al comando del colonnello Luigi Bossi. A Bari si concentrò inizialmente anche il 6° reggimento agli ordini del colonnello brigadiere Giovanni Nicotera. Gli uffici del 9° e 10° reggimento furono sistemati a Barletta. Comandava il 10° reggimento il colonnello Francesco Corvi, mentre il comando del 9° fu affidato al venticinquenne colonnello Domenico “Menotti” Garibaldi, figlio dell’eroe. Nel 9° reggimento entrarono molti liguri, romagnoli, marchigiani, toscani e siciliani. Menotti, arrivato alla stazione di Barletta verso le 10 di sera del 9 giugno, fu accolto trionfalmente e ospitato nel palazzo del nobile Pietro Cafiero. Il 10 e l’11 giugno, invece, pernottò nel municipio di Molfetta. Alcuni suoi battaglioni saranno poi dislocati a Terlizzi e Ruvo. Il 17 giugno la Prussia intimò guerra all’Austria, seguita dall’Italia, che la dichiarò il 20, fissando l’inizio delle ostilità per il 23. Dopo la dichiarazione di guerra, nella Penisola si respirava un’aria di grande euforia patriottica. Intanto il 17 giugno il colonnello Specchi, ospitato nella casa del proprietario terriero Antonio Pappagallo di Donato, un carbonaro del ’48, nel prendere il comando dell’8° reggimento, indirizzò ad esso un ordine del giorno: «L’Italia mi chiamò alle armi, il Generale Garibaldi mi scelse a vostro duce nelle ultime battaglie della nostra indipendenza. L’indipendenza d’Italia è sicura perché vedo tutti gli Italiani in solo spirito di concordia di principi. E questi sentimenti riscontro grati in voi, miei commilitoni e perciò credo sia meno difficile il compito affidatomi. Voi o volontari, che il sincero amore di patria vi spinse ad abbandonare le vostre famiglie per correre a schierarvi sotto il santo vessillo della Nazionalità, dovete dare esempio di bella educazione e di rispetto e vi raccomando la disciplina e l’obbedienza. La disciplina e l’obbedienza del soldato formano la forza completa e vincitrice delle armi. Perseverate in questi sacrosanti principi ed allora, sicuro del vostro appoggio e del vostro affetto, mi accingo con tutta fiducia ad affrontare con voi il nemico della nostra unità». A conservare memoria del documento nei Ricordi della sua vita fu il patriota biscegliese Francesco Calò, che posto dal Governo davanti al dilemma di tenere il grado di maggiore nella Guardia nazionale mobile o quello di capitano nell’8° reggimento volontari, scelse orgogliosamente la seconda possibilità. Presentatosi a Molfetta al col. Specchi, che lo conosceva, ebbe il comando del 4° battaglione e non di una semplice compagnia. Infatti Specchi scrisse a Garibaldi che il battaglione era ben comandato e non aveva bisogno di un comandante superiore. Due giorni dopo l’arrivo di Specchi, il quale, oltre che amico di Garibaldi, era cavaliere della croce di Savoia e di Spagna, tornò a Molfetta Menotti Garibaldi, accolto da strepitose ovazioni, «come se fosse stato Garibaldi padre», commenta il cap. Calò. Gli ufficiali dell’8° reggimento offrirono al comandante del 9° reggimento un pranzo d’onore nel giardino di una signora molfettese. Intervennero il sindaco di Molfetta Maurizio Fraggiacomo con una rappresentanza della municipalità e gli ufficiali della Guardia nazionale. Verso la fine del pranzo, un sergente messo di guardia con un picchetto alla porta del giardino, o perché ubriaco o per una maldestra battuta di spirito, si avvicinò alla tavola e gridò: «Vogliamo Menotti per nostro colonnello!». Il cap. Calò, alzatosi subito, prese il sergente per il braccio e lo cacciò fuori. Menotti Garibaldi, invece di spendere qualche parola di cortesia per il col. Specchi, non fece motto. Dopo il pranzo gli ufficiali si recarono a teatro. Anche qui vi furono frenetiche ovazioni per il giovane figlio dell’eroe, ma nessuna parola d’incoraggiamento per il maturo Specchi. Dopo circa un’ora, Menotti volle uscire e il col. Specchi, profondamente tediato, si ritirò a casa sottobraccio al cap. Calò. Il 21 giugno Specchi ricevette una lettera firmata da Garibaldi che lo sollecitava a mettersi rapidamente in marcia con l’8° reggimento. La verità, ignota al comando, era che il colonnello indugiava a partire solo perché non erano ancora arrivati i fucili, che si aspettavano da un momento all’altro. Nello stesso giorno giunse da Bari l’avvi24 15 marzo 2010 C ultura so che i fucili per l’8° reggimento erano arrivati. Gl’incaricati inviati a rilevarli, però, tornarono senza le armi. I fucili spettanti all’8° reggimento erano stati ritirati da Menotti Garibaldi. Infatti il 22 giugno il fi glio dell’eroe venne da Terlizzi alla testa di alcuni suoi reparti per prendere il convoglio ferroviario per Brescia. Il col. Specchi, così, vide sfi lare sotto i suoi occhi molte camicie rosse del 9° reggimento che raggiungevano in anticipo la ferrovia con i fucili destinati all’8°. Ferito nell’orgoglio e depresso, nella notte tra venerdì 22 e sabato 23 il veterano di Garibaldi maturò la sua decisione e scrisse un biglietto. Altomare racconta così i suoi ultimi momenti: «Il colonnello Specchi era stato visto ad esercitarsi con una pistola al tiro a segno, nella casa dell’ospite. Quando il 23 giugno fu sentito un colpo d’arma da fuoco echeggiare nella stanza, dove il colonnello era solito dormire, accorse il Pappagallo e notò subito ch’egli si era suicidato, a piè del letto, impugnando ancora la rivoltella verso l’orecchio. Corse, com’era vestito, per denunziare e farsi aiutare». Il comando interinale dell’8° reggimento fu assunto dal quarantaquattrenne maggiore Vittore Tasca, uno dei Mille, che fece leggere ai reparti un ordine del giorno così concepito: «Una grave sciagura ha colpito oggi il nostro paese; il nostro colonnello Eliodoro Specchi, soggiacendo ad un eccesso di malinconia a cui era in preda da più giorni, si tolse miseramente la vita. Egli era un bravo! E il nostro Generale lo aveva amico! Morì col nome d’Italia e di Garibaldi sul labbro. Volontari dell’8° Reggimento, io assumo provvisoriamente il comando del Reggimento. In tanta luttuosa circostanza il vostro concorso, il vostro buon valore mi sono più che mai necessari. La nostra partenza, già stabilita con odierno dispaccio dal Generale Garibaldi non verrà perciò diff erita di un minuto, giacché più che qualunque dolore, può in voi l’amore d’Italia. I Signori Comandanti di Compagnie disporranno perché tutti i volontari da loro dipendenti si trovino radunati nelle loro camerate per le ore 5 precise dovendo aver luogo i funerali del compianto signor Colonnello». Ai funerali parteciparono, oltre ai garibaldini di stanza in città, il sindaco Fraggiacomo, altre autorità e molti cittadini. Essendo arrivati in giornata i fucili destinati al 9° reggimento, essi servirono per l’8°, che fu armato in fretta e messo in partenza per Brescia. Con il 6° reggimento del col. Nicotera l’8° formerà la 5a brigata, affi data allo stesso Nicotera, creato poi generale. La notizia del suicidio rimbalzò sui giornali. Tra gli altri, il quotidiano cattolico L’Armonia della Religione colla Civiltà quattro giorni dopo riportò così i fatti: «Un telegramma particolare in data di Molfetta, 23, reca la notizia che il Tenente Colonnello Specchi, nel reggimento dei volontari di Garibaldi, si uccise la mattina con un colpo di pistola, lasciando scritto: “Nessuno si occupi della mia morte; l’onorevole posto affi datomi è superiore alle mie forze. Prego il bravo maggiore Tasca inviare a mia sorella Adele tutto ciò che mi appartiene. Augurando vittoria agli Italiani, prego il mio amato Generale Garibaldi a non dimenticare il suo povero Specchi”. Il colonnello era da più giorni assai preoccupato della gravità dei suoi uffi ci. Le parole degli amici non valsero ad infondergli coraggio». Il comando dell’8° reggimento fu poi affi dato dalla Commissione militare a Vincenzo Carbonelli, uno dei prodi di Marsala, che con i suoi volontari il 21 luglio a Condino, in Trentino, con antiquati fucili ad avancarica opporrà una valida resistenza agli Austriaci, meritando la croce di uffi ciale dell’Ordine militare di Savoia. Nello stesso giorno, a Bezzecca, Menotti Garibaldi si guadagnerà una medaglia d’oro e Abba una d’argento. La bara del colonnello Specchi prese la via di Bologna. Proprio a Bologna aveva in mente di andarlo a cercare, tre lustri dopo, l’amico Abba, come ha lasciato scritto nell’incipit di una commossa pagina rievocativa pubblicata nella Rassegna settimanale del 1882: «Io voglio una sera andare nella Certosa di Bologna e cercherò tanto per quei chiostri che troverò la tomba di Eliodoro Specchi, sepolto là dentro da quindici anni. Immagino che quella tomba sorga in un cantuccio modesto; veggo i fi ori che una volta alla settimana va a porvi la vecchia sorella del morto, e se lascio andare la fantasia, ecco Gioachino Murat, discendere del suo piedestallo, venir giù a passi sonanti per la cupa corsia: si mette alla testa dell’ombre di tutti i valorosi sepolti nella Chiesa, e li conduce ad onorare un uomo che fu prode».

Autore: Marco I.de Santis
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