Dodici aprile di quest'anno, manifestazione nazionale a Roma per la Pace. Mia figlia decide di parteciparvi insieme ad una decina di suoi amici. Contatto l'amico Peppino Panunzio, anche lui con una figlia tra i partenti. Motivazioni politiche, ed anche “paterne”, (ma queste non bisogna manifestarle), ci spingono a far parte della brigata.
Tolgo dal balcone la bandiera della Pace e mi rendo conto di non avere un'asta: il manico della scopa di cucina rimedia adeguatamente alla mancanza. L'importanza della Causa giustifica di gran lunga la gravità dell'atto, e mette anche in conto le irripetibili reazioni verbali di mia moglie. Assicuro il drappo con qualche chiodo, e lo pongo nell'angolo dell'ingresso,pronto alla partenza. Ma qualcosa mi dice che non va,che è incompleto. Certo, sono un pacifista, la bandiera della Pace mi sta bene, ma io sono “anche” qualcos'altro.
Pace è una parola moralmente ineccepibile, ma spesso storicamente ambigua, e politicamente inefficace: bisogna “riempirla” di qualcos'altro: e poi quella l'ha esposta anche la signora del palazzo di fronte, la stessa che andò a sentire Fini, quando venne per la chiusura della campagna elettorale: era tutta eccitata, s'era messa l'abito buono, mezzo litro di profumo, e strapazzava il marito, che era in ritardo, e che probabilmente non aveva nessuna intenzione di assistere a quello spettacolo.
No, la bandiera non bastava. Della falce e martello, neanche a parlarne: come conciliare, come “superare” (solo Croce ci credeva, con i suoi insipidi minestroni), la Rivoluzione Russa e la repressione di Kronstadt, Guadalajara ed i massacri di Barcellona, la Resistenza e le Foibe, il Vietnam e gli orrori della Cambogia? Troppo complicato.
Finalmente, direi quasi naturalmente, ripiego sul rosso e nero dell'Anarchia: un'appartenenza sentimentale, senza pretese, senza pagelle, senza primi della classe. Con due nastrini di raso legati a farfalla in cima, il mio vessillo è perfetto.
Si parte alle sei; a Barletta salgono una decina di ragazzi: il pullman è organizzato dalla Cgil e dai Comunisti Italiani. L'autista è semplicemente insopportabile: ci propina dell'orrenda musica country americana, (occhio alla censura!), fissa gli orari al millesimo di secondo: si vede benissimo che detesta questo genere di manifestazioni: ma noi siamo pacifisti e non possiamo mandarlo al diavolo.
Piazza dell'Esedra, ore tredici e trenta: siamo in coda all'immenso corteo: aspettiamo di incolonnarci; i giovani ci hanno scaricati e io e Peppino ci aggiriamo per la piazza; mi tocca portare la bandiera, categoricamente rifiutata da mia figlia.
L'Esedra è un immenso carosello multicolore, festoso, multietnico, animato da mille movimenti, sigle, associazioni, provenienti da tutta la penisola. Ci sono anche gli individualisti. Un distinto signore di mezz'età, con giacca e cravatta, inalbera un cartello con la scritta: “Liberiamoci dai liberatori”; una signora toscana distribuisce fogli manoscritti con l'elenco documentato delle torture praticate dagli stati arabi amici degli americani; un vecchio partigiano stringe a tutti la mano, e va gridando che non siamo soli, e che migliaia di morti marciano con noi. Intravedo nella folla alcuni giornalisti della stampa libera: sono raggianti.
Insomma la verità, assassinata dalle televisioni e dai giornali, risorge fortissima in questa piazza, piena di luce e di gioia. L'appuntamento con i ragazzi è presso la postazione dei Comunisti Italiani: un giovane volenteroso urla al microfono slogan abbastanza condivisibili, ma mette loro in coda una specie di litania: “Ringraziamo il compagno Cossutta per essere con noi! Grazie, compagno Cossutta, per essere venuto!”. La centesima volta mi rompo, e grido a gran voce che certamente Cossutta è una degnissima persona, ma non mi sembra proprio che debba essere “ringraziato” per la sua presenza, dal momento che compie niente di più del suo dovere. Transeat.
Alle quattordici e trenta, dopo tre ore di attesa sotto il sole, finalmente sfiliamo anche noi. I giovani si sono aggregati ad un foltissimo gruppo di coetanei, circa 300, che segue ballando un camion dell'Unione degli Studenti, su cui sono montate delle potentissime casse. Naturalmente ci hanno ordinato di stare alla larga. Dopo qualche attimo di esitazione, io e Peppino troviamo un soddisfacente posizionamento. Ci precede una bandiera della Pace lunga non meno di cento metri, sostenuta dagli iscritti alla Federazione torinese dei Comunisti Italiani: signore e signori di mezz'età, molto eleganti, molto compiti, molto piemontesi.
Atmosfera radicalmente diversa alle nostre spalle: siamo seguiti dal Partito Marxista-Bolscevico Toscano, forte di cinquanta compagni, tutti con bandiera e camicia rossa, con minibanda che ci da dentro con l'Internazionale. Terrificanti gli slogan contro gli americani. Impossibile defilarsi da quel gruppo di pazzi: cerco senza molto successo di mettere in bella mostra la minuscola farfalla libertaria in cima al manico di scopa, e spero nella protezione ultraterrena di Carlo Cafiero.
In via Barberini succede il fattaccio. Tra i bolscevichi ed il camion degli studenti, si è creato nel corteo un vuoto di circa cinquanta metri: improvvisamente, sbucando da un via laterale, si inseriscono in quello spazio un decina di black-block: tute e passamontagna neri, simboli parafascisti bianchi sul petto. Camminano per qualche metro, mentre intorno a loro si crea il vuoto: molti giovani si sbandano, e fuggono gridando: i provocatori si dividono in due gruppi: quattro o cinque, sfondano le vetrate di una banca, con mazze ferrate e biglie di metallo: gli altri minacciano i ragazzi con due molotov: ne lanciano due, una s'incendia, l'altra no, ma getta spruzzi di nafta sul giubbotto di mia figlia, che è vicinissima. Il tutto in non più di cinquanta secondi.
Alcuni adulti inseguono gli infiltrati, ne agguantano due o tre, li pestano, gli altri fuggono, la polizia non si vede, molti giovani piangono di rabbia e di paura. Per qualche minuto perdiamo di vista i giovani molfettesi, poi ci ritroviamo tutti, e decidiamo di procedere a vista. In quel momento ho grande timore, che una carica della polizia, miracolosamente emersa, si abbatta su quel settore del corteo, poco compatto, prevalentemente giovanile, scosso dalla provocazione e dalla violenza. Ma per fortuna non accade nulla, e tutto si conclude al Circo Massimo, dove ci riposiamo sull'erba, e immortaliamo l'epica giornata con qualche fotografia.
Per tornare al pullman, prendiamo al Colosseo la metropolitana, con fermata all'Anagnina: mezz'ora stipati come stoccafissi. Io che soffro seriamente di claustrofobia, temo di schiattare, offro la mia vita alla Causa della Pace e mi accingo a dettare le ultime volontà a mia figlia, che mi conosce e mi guarda visibilmente preoccupata.
E invece sopravvivo per il prossimo corteo, per la prossima Guerra Umanitaria, per i prossimi bambini massacrati in nome e per conto della Civiltà Occidentale.
Ignazio Pansini