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Omicidio Bufi, tra “non so” e “non ricordo” IL PROCESSO - All'ultima udienza ascoltato il maresciallo Avila
15 maggio 2004

Continua, presso la Corte d'Appello di Trani la “passerella” dei testimoni che da mesi ormai si alternano per rilasciare le proprie dichiarazioni all'omicidio di Anna Maria Bufi (nella foto), trovata morta nella notte del 4 febbraio del 1992 sul ciglio della S.S.16. L'udienza del 23 aprile ha visto come unico protagonista il maresciallo Rosario Avila che, al tempo dell'assassinio, svolgeva servizio presso la caserma dei carabinieri di Molfetta. Il pubblico ministero dott. Bretone, ha voluto sottolineare e al contempo dimostrare al presidente Concetta Russi il lavoro del maresciallo il quale ha partecipato insieme ad altri colleghi alla perquisizione effettuata pochi giorni dopo l'accaduto presso l'abitazione dell' unico imputato Marino Domenico Bindi. Si è cercato di capire se, durante l'esame, siano stati ritrovati delle tracce, dei vestiti, delle scarpe sporche di terriccio compatibile con quello trovato sul corpo del cadavere. Il maresciallo Avila ha più volte affermato che non sono state ritrovate, almeno in sua presenza, oggetti di importanza tale da poter disporre un sequestro da parte della magistratura, ma ha comunque asserito che non esclude che qualche oggetto “interessante” possa essere stato ritrovato (in sua assenza) da qualche collega. Tra un “non so” e un “non ricordo” si è affrontato un altro tema molto importante: la perquisizione della macchina del Bindi. Anche in questo caso il maresciallo ha dichiarato di non aver trovato niente di particolare. Ciò che ha attirato di più l'attenzione dell'accusa e del presidente Russi riguarda un'osservazione dell'Avila: “Ebbi la sensazione che la macchina fosse stata lavata da poco tempo perché la moquette del bagagliaio era ancora umida, cosicché effettuammo delle ricerche presso alcuni autolavaggi, ma anche in questo caso non avemmo nessuna risposta affermativa”. Dopodiché è arrivato il turno del maresciallo Antonio Rosato il quale però si è avvalso della facoltà di non rispondere poiché risulta iscritto nel registro degli indagati per alcuni reati commessi all'omicidio. Deposizione “lampo” anche per il dott. Antonio Taranto, (psichiatra, che per un lasso di tempo relativamente breve ha tenuto in cura il Bindi), il quale ha riferito che tutto ciò che egli conosce della personalità del suo assistito è riportato all'interno delle sue cartelle cliniche che a suo tempo furono sequestrate dalla magistratura. Alessandro de Gioia alessandro.degioia@quindici-molfetta.it Le dichiarazioni dell'avv. Maralfa, difensore di parte civile Processo a Potenza, 4 carabinieri rinviati a giudizio dal Gup Un ufficiale e tre sottufficiali dei carabinieri di Molfetta sono stati rinviati a giudizio dal Gup di Potenza, Antonio Iannuzzi, con l'accusa di aver falsato elementi di prova per aiutare Domenico Marino Bindi sospettato dell'omicidio di Annamaria Bufi. La prima udienza è fissata per il 6 ottobre prossimo. Il tenente Pietro Rajola, i marescialli Vito Lovino e Luigi Policastro e il vicebrigadiere Antonio Rosato sono accusati di falso ideologico e favoreggiamento. Dalle indagini sarebbero emerse anche presunte responsabilità dell'avv. Leonardo Iannone, di Molfetta, il quale nel 1992 aveva difeso il principale indiziato del delitto, Marino Domenico Bindi. In particolare l'avv. Iannone, secondo la Procura di Potenza aveva aiutato i Carabinieri di Molfetta (imputati di falso ideologico e favoreggiamento pluriaggravato di Bindi) ad eludere le investigazioni della stessa Procura. Il Gup lucano ha disposto per Iannone l'invio degli atti al Tribunale di Trani, competente per territorio, in quanto il presunto reato di favoreggiamento contestato all'ex legale di Bindi, che ha dovuto lasciare la difesa in seguito a quest'accusa, era stato commesso in Molfetta I quattro carabinieri imputati, all'epoca del delitto, erano al nucleo operativo della compagnia di Molfetta e si erano occupati dell' inchiesta. Secondo 1'accusa, avrebbero compiuto una serie di gravi abusi per proteggere il principale sospettato, il fidanzato della donna uccisa, 1'insegnante di educazione fisica Marino Bindi. Gli investigatori non avrebbero verificato 1'alibi di Bindi e avrebbero omesso di scrivere in un verbale di aver trovato a casa di questo un paio di scarpe sporche dello stesso fango trovato sulle scarpe della vittima (calzature che sarebbero poi sparite dalla caserma). Inoltre sarebbero stati manomessi i nastri di intercettazioni telefoniche relative all'inchiesta. Il procedimento contro i quattro, avviato dalla Procura di Trani, si è svolto a Potenza perché inizialmente nell'inchiesta erano coinvolti due ex-pm della procura pugliese, che avevano indagato sul delitto Bufi. I magistrati erano accusati di abuso d'ufficio a favore di Bindi. L'indagine a loro carico era stata archiviata nel maggio dell'anno scorso dal Gup di Potenza. Marino Bindi recentemente è stato di nuovo accusato dalla Procura di Trani di essere l'omicida di Anna Maria Bufi. Intanto Giuseppe Maralfa, avvocato di parte civile (per i genitori di Annamaria) mette in evidenza altri particolari emersi nell'ultima udienza del processo in Corte d'Assise: 1) L'autovettura Renault Nevada station wagon appartenente al Bindi, fu ispezionata dal M.llo Rosario Avila (nel 1992 componente del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Moffetta) il giorno successivo all'omicidio, come lo stesso Avila ha riferito alla Corte di Assise di Trani. Orbene, detta autovettura si presentava lavata da poco, sia all'esterno che nell'interno, anche nel portabagagli tanto è vero che il M.llo Avila notò che la moquette della vettura in parola era umida. La circostanza è stata valorizzata dal Presidente della Corte che ha chiesto se fu fatto un verbale di sequestro della ripetuta auto (e il militare ha risposto di no) e se furono effettuati accertamenti sul mezzo per stabilire se lo stesso fosse stato lavato presso una officina ovvero privatamente (a tale domanda il militare ha risposto che furono compiuti accertamenti presso alcuni lavaggi ma nessun lavaggista l'aveva pulita, quindi l'auto venne lavata privatamente). La circostanza appare importantissima. 2) Quando venne effettuata la perquisizione in casa del Bindi (perquisizione a cui, sempre secondo quanto riferito dal militare, partecipò il Pubblico Ministero Inquirente dott. Messina) i carabinieri non vi presenziarono tutti contemporaneamente, sicché il M.llo Avila non ha potuto escludere che qualche altro militare (v. deposizione del M.llo Antonio Caldarulo autore del rinvenimento delle famose calzature sporche di terriccio, lo stesso rinvenuto sulle calzature della defunta) possa avere ultimato la perquisizione quando lo stesso Avila era già andato via. 3) Sempre il M.llo Avila ha chiarito che già il giorno dopo dell'omicidio, 4 febbraio 1992, si sapeva già che la ragazza era stata uccisa con un corpo contundente (e non sparata) mentre il 6 febbraio 1992 fu inspiegabilmente diramata dall'allora Comandante di Compagnia, Capitano Pagliari, la notizia di reato alla Procura del Trani in cui si legge che la ragazza era stata uccisa con un fucile a canne mozze (?!?). Anche il medico legale prof. Di Nunno, allorquando fu ascoltato in Corte di Assise, chiarì di non aver mai detto che la ragazza era stata sparata, ma di aver immediatamente detto (e scritto) che la morte era dovuta all'azione di un corpo contundente. 4) E' stato ascoltato quale teste il M.llo Antonio Rosato dei CC, il quale, in quanto imputato dinanzi al Tribunale di Potenza per i reati di falso e favoreggiamento del presunto assassino Bindi Marino, si è avvalso della facoltà di non rispondere. E' vero che è un diritto dell'imputato-testimone quello di non parlare, ma quando il rifiuto di parlare dinanzi ad una Corte proviene da un Carabiniere che ha indagato sull'omicidio di una ragazza ed oggi rifiuta di collaborare con la Giustizia per il raggiungimento della verità, la circostanza ci sembra davvero paradossale e non contribuisce certamente a far ritenere che le condotte tenute nel 1992 da taluni inquirenti siano state “limpide”.
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