Le poesie dai novantanove anni in su di Augusto Maria Ficele
Una delle più interessanti e promettenti espressioni artistiche che l’annata 2012 ha rivelato al panorama culturale molfettese (e non solo) è senz’altro lo stralunato canzoniere di Augusto Maria Ficele, dal sardonico titolo Poesie dai novantanove anni in su, corredato da una brillante e dotta “postfazione” di Pasko Simone. Ficele, classe 1992, studente di lettere e dipendente occasionale di call center, squaderna al lettore l’esuberanza di un’anima che volge dal sublime allo scatologico nel giro di pochi versi, in una silloge che ci appare decisamente postmoderna e, tutto sommato, anche postmodernista. Si intravede al fondo un certo nichilismo, solo apparentemente ilare, figlio del disorientamento di una generazione che conosce proprio nel lavoratore del call center una delle sue manifestazioni più emblematiche. Il poeta Ficele è tutt’altro che uno dei tanti versificatori improvvisati; la doctrina si coglie già nella scelta degli Apophoreta in esergo, ma riemerge a ogni pagina nel gusto del citazionismo, quasi sempre irridente. Il “piccolo mondo antico” di Fogazzaro diviene un “piccolo mondo insulso”; la dolorosa, trafittiva, “sera” del Quasimodo, scevra della sua carica metaforica, cala fortunatamente sulla libreria costellata di piccole cose di pessimo gusto, che incarnano pienamente i gusti del lettore medio; Dante viene straziato impietosamente, il pineto di D’Annunzio ridimensionato e “urbanizzato” e mille altri esempi si potrebbero citare. Se i poeti maestri sono oggetto di divertita deminutio, quali saranno gli eroi di questo mondo senza santi (si scherza con bonomia persino sul “peccato zoofilo” di San Francesco): forse quel citato John Bohnam, batterista dei Led Zeppellin, morto soffocato dal suo stesso vomito di alcolista? Apparentemente non si individuano eroi né miti (“Appartengo ai miei calzini bucati”), ma solo un euforico-depresso vagare in perenne ricerca d’amore, magari prezzolato; un amore-cianuro (molto convincente il “Dialogo sui massimi sistemi sentimentali”), ben poco stilnovista, altamente materico e forse per questo quanto mai puro. Uno dei feticci di questa poesia è proprio rappresentato dalle “scarpe”, dai “piedi sudati” che “scoppiano di amplessi”, icone di una vita in movimento-errore, difficile in una società che – elevata l’economia a somma divinità – ha perso il senso dell’incanto (“Omero, / mostriciattolo apocrifo, / dovrà scomodarsi per trovare un altro esilio”). O magari l’eroe di questo guazzabuglio apparentemente insensato è lui, il precario del call center, che sperimenta quotidianamente l’alienazione di moderne catene di montaggio, fatte di telefonate a utenti perlopiù disinteressati, quando non patentemente infastiditi. Quello che annusa “il guadagno”, ben misero il più delle volte, “tra lo sportello della banca e la [...] mano eccitata”, per poi tornare improvvisamente bambino attraverso quella poesia controdolore, che tanti come Palazzeschi hanno coltivato quale divertissement in realtà serissimo, in reazione alla crisi dell’intellettuale legislatore. Esiste, allora, in questo mondo la possibilità di una grazia, oppure la più grande ambizione sarà “spegnersi a febbraio / dopo l’annunciazione, dopo la neve / che ti assolve e scompare al sale”? La grazia è forse in quel dare “occhi / ai figli nativi del Senegal”, come Virgilio avrebbe potuto “manibus dare lilia plenis”, ed è nel valore eterno di amuleti che restituiscono il senso e la gioia, infine, dell’esistere: “Ridi. Ridi ancora di quell’arancia / concessa dal fruttivendolo / che ti profuma ancora le labbra”.
Autore: Gianni Antonio Palumbo