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Le immagini e la storia contestuale dell’arte mariana - 1*
15 maggio 2022

Presso i cristiani esiste una certezza: la figura, l’aspetto esterno, le fattezze di Maria non sono note. Il volto della Vergine appartiene alla storia della spiritualità. Lungo i secoli, i credenti hanno creato un patrimonio iconografico mariano, rispondente alle esigenze della teologia, del pensiero ecclesiologico, della preghiera, della devozione. Un giudizio d’Agostino d’Ippona, espresso nell’ottavo capitolo del trattato sulla Trinità, fa testo circa il ruolo, il significato e il ritratto di Maria: “Noi crediamo, egli scrive, che il Signore Gesù Cristo sia nato da una vergine di nome Maria. Che cosa sia una vergine, che cosa sia una nascita e che cosa sia un nome proprio, non dobbiamo crederlo: lo sappiamo. Il viso della Vergine è ciò che ci viene in mente quando pensiamo e parliamo di queste cose; tuttavia non lo conosciamo né lo crediamo. Eventualmente, noi abbiamo il diritto di dire, senza ferire la fede: “la Vergine ha avuto forse quel certo viso, o forse no”; però dire: “forse il Cristo è nato da una vergine”, questo veramente nessuno può farlo, senza ferire la fede cristiana” (VIII, 5, 7; cfr. Marcellin Mellet - Pierre-Thomas Camelot, Bibliothéque augustinienne, 15, 1955). A somiglianza della figura di Cristo, quella di Maria è, nella storia dell’arte religiosa, al centro della produzione iconografica. “Il solo nome della Theotòkos, la Madre di Dio, contiene tutto il mistero dell’economia della salvezza” (Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa III, 12). Le immagini mariane raccolgono i sentimenti che la Chiesa ha avuto e ha verso il Cristo, del quale “noi abbiamo contemplato la gloria, gloria come d’Unigenito dal Padre” (Gv 1, 14). Per sua natura, l’iconografia mariana è essenzialmente cristologica. La preghiera della Chiesa unisce intimamente la Madre al Figlio: “Noi ti rendiamo grazie, o Dio, per il tuo puerum prediletto Gesù Cristo, che ci hai mandato in questi ultimi tempi (come) salvatore, redentore e messaggero della tua volontà. Egli è il tuo Verbo inseparabile, per mezzo del quale hai creato ogni cosa e che, nella tua compiacenza, hai inviato dal cielo nel seno di una Vergine e, essendo stato concepito, si è incarnato e si è manifestato come tuo Fi1 *Non è ancora trascorso un anno da quando Molfetta è stata dichiarata Città Mariana. Un titolo d’onore e di riconoscimento per una popolazione che nei momenti difficili si è sempre rivolta alla Vergine Madre di Dio, sotto il titolo di Madonna dei Martiri, trovando in Lei motivo di conforto, di aiuto, di speranza, di gratitudine. La Madonna dei Martiri è identità per un molfettese ed è molto avvertita e venerata dalle comunità molfettesi sparse nel mondo, dall’America Latina agli Stati Uniti d’America, fino alla lontanissima Australia. A partire dal numero di maggio, mese mariano, presentiamo a puntate il saggio The Representation of Mary in the History of Art, (trad. inglese di Christiane L. Joost-Gaugier), preparato da mons. Pietro Amato per la mostra The Mother of God: Art Celebrates Mary, catalogo, Washington, Pope John Paul II Cultu- ral Center, marzo 2001-giugno 2002, Mondadori Printing S.p.A, 2001, pp. 15-37; il testo originale Le immagini e la storia conte- stuale dell’arte mariana è comparso più tardi nel “Bollettino dei Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie” (XXI, 2001, pp. 413-447). Si avverte che alcune illustrazioni saranno sostituite da altre per motivi di opportunità, come ad esempio quella d’indicare un’immagine relativa al patrimonio d’arte molfettese. glio, nato da Spirito Santo e dalla Vergine” (Botte 1966, pp. 11 e seguenti). Nel patrimonio figurativo dei primi secoli, l’arte pone costantemente il Dio Bambino tra le braccia della Vergine; quando la riflessione teologica si eleva, vengono poste nuove situazioni iconografiche tra il Cristo, nuovo Adamo, e Maria, nuova Eva (Cignelli 1966). Si deve al repertorio iconografico dei primi secoli lo sviluppo di quello che sarà l’arte cristiana dal Medioevo al Quattro-Cinquecento, dalla Riforma Cattolica al Barocco, dall’Ottocento ai nostri giorni. Maria è Colei che ha generato la Luce del mondo Maria inluminatrix, sive stella maris. Genuit enim lux mundi (Isidoro di Siviglia, Etymologia- rum, VIII, 10.1a) Nella prima metà del VII secolo, sant’Isidoro, vescovo di Siviglia, stigmatizza, senza volerlo, la situazione iconografica della Theotòkos. La sua in- tenzione è quella di definire il significato della parola Maria ma, considerando che, per i Padri della Chiesa, l’iconografia e la liturgia sono due trascrizioni di una medesima fede teologica e tradizione ecclesiale, consegna ai posteri una lettura teologi- ca e iconografica, desunta dalla storia del pensiero e dell’immagine mariana. “Maria - egli scrive nel dizionario Etymologiarum - significa Colei che illumina, o stella del mare, perché ha generato la luce del mondo; autem, in lin- gua siriaca - aggiunge - Maria significa Signora, e questo correttamente (pulcre), perché ha generato il Signore” (Etym., VIII, 10.1). Sant’Isidoro fa capire che nel Tardo Antico l’iconografia mariana si sviluppa su una duplice matrice: la prima (a partire dal II secolo) guarda a Colei che ha generato la Luce del mondo; la seconda, che si esalta nell’arte trionfale (a partire dal IV secolo), si rivolge alla regalità di Cristo e della Madre. L’una e l’altra, particolarmente nell’arte musiva, spesso si sovrappongono, dando adito ad una più complessa e densa comunicazione visiva. Alla venuta del Signore, il tema della luce è quello più grave, il più avvertito dalla cultura e dalla sensibilità dell’uomo. L’apostolo Giovanni, dalle chiese d’Oriente denominato il Teologo, ne è cosciente e, di fronte all’angoscia esistenziale dovuta all’orrore dell’oltretomba, scrive la buona notizia (Vangelo), dando inizio alla più impressionante rivoluzione filosofica e teologica dell’epoca. Nel Prologo (Gv 1), prima di narrare gli episodi di cui è testimone, afferma che il Salvatore, l’Unto del Signore (Gesù Cristo), è la Luce del mondo (Lux mundi). La Luce è il Verbo (Verbum) del Padre; il Verbo ha preso Carne (Caro factum est) e ha messo dimora in mezzo agli uomini. La Luce, che ha preso Carne nel seno di una Vergine, di nome Maria, costituisce la risposta alla brevis lux di Catullo, all’escatologia dell’orrore dell’oltretomba, dove regnano le tenebre schiarite dalla luna. Gesù Cristo è la Luce che ha distrutto il regno dell’ades; è la lux æterna, dove la vita non conosce più tramonto, a motivo che Egli è il Risorto, Colui che ha riportato la Vittoria sulla morte. Due dipinti che sono al Louvre, ma che proven- gono dall’antico Egitto, illustrano il passaggio di questa rivoluzione culturale (L’Art Copte, nn. 24, 144). Sono l’immagine solenne e iconica del dio Anubis che introduce un’anima nell’oltretomba, tela dipinta ad encausto, e quella, altrettanto ieratica, del dipinto su tavola Cristo che introduce l’a- bate Mena nel regno della luce. Anubis e Cristo sono ritratti nel medesimo gesto d’accompagnamento del defunto nell’oltretomba; diverso però è lo scenario: il primo conduce nel regno delle tenebre, dov’è raffigurata la luna; il secondo, che so- stiene il libro aureo della vita, adorno di perle e di pietre preziose, accompagna Mena nel regno inondato di luce solare. A questi temi esistenziali e d’oltretomba fanno riferimento le due epigrafi della prima metà del IV secolo, presenti in mostra; sono apposte rispettivamente sulla Lastra di copertura di loculo di Pontiana (fig. 1) e sull’Alzata di sarcofago di Severa con scena di Epifania (fig. 2). Ambedue le iscrizioni, formulano voti augurali: Vibas Pontiana / in aeterno (Possa tu vivere Pontiana in eterno!) e Severa / in Deo vi / vas (Severa, possa tu vivere in Dio!) e traducono il credo alla vita (vivas), in Deo e in æterno. Nel sarcofago di Severa, il Logos Bambino è sulle ginocchia della Madre, indicato da una stella. Risulta che i Magi sono i primi seguaci della stella (fig. 3). Curiosamente, nell’ortografia romana l’asterisco (da aster, stella), che viene collocato nel luogo dove è necessario illuminare, si trascrive in forma di stella. I Magi, condotti da una stella, trovarono una Madre col Bambino e, dall’asteri- sco, compresero che erano di fronte al Logos generato dalla Vergine. Al Dio Luce, presentarono i doni allegorici. Alla scena dell’Adorazione dei Magi, che era diffusissima tra i cristiani provenienti dal paganesi- mo, si attribuisce il significato dell’adesione della Chiesa dei Gentili al nuovo regno, iniziato dal Frutto del seno (Lc 1,42) della Vergine. Nell’antichità, il seno verginale è il titolo indispensabile e credibile per una maternità divina. Tra le più antiche raffigurazioni di Maria col Bambino, va posta l’insolita immagine della catacomba di Priscilla, datata intorno agli anni 230- 240. Eseguita secondo i canoni stilistici dell’arte severiana, una Donna, vestita di tunica a palla, è seduta con il capo velato, nell’atto di nutrire il figlio con il petto. Il Bambino, dai grandi occhi luminosi, che richiamano alla memoria la ritrattistica dell’Egitto e i canoni estetici del neo platonismo, staccatosi dal seno, si volge verso lo spettatore. All’episodio, partecipa un uomo astante, vestito di tunica e di pallio, che indica, con la mano destra una stella posta in alto tra le due figure. Gli iconografi discutono su di lui: per alcuni è Isaia (7,14); per altri, Balaam (Num 24,17); per altri ancora, un riferimento a Michea (5,2); non manca chi ha pen- sato al Salmo di Davide: «dal grembo prima della stella del mattino ti ho generato» (109, 3). Una domanda s’impone: l’immagine rappresenta proprio Maria, la sposa casta di Giuseppe, e il Logos? È possibile che la scena, compreso l’astante, appartenga a un generico annuncio messianico e sia un’espressione iconografica, passata nell’arte cristiana con contenuti specifici, come testimonia l’immagine dell’Alzata di sarcofago di Severa con scena di Epifania. MARIA VUOL DIRE SIGNORA, AVENDO GENERATO IL SIGNORE Sermone autem Syro Maria domina nuncupatur; et pulcre, quia Dominum genuit (Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, VIII, 10.1b) Quando i cristiani dei primi secoli hanno pensato di raffigurare Maria, con gli abiti di regina, non hanno trovato alcuna difficoltà. Era loro naturale. Lo trovavano come frutto maturo delle parole che l’angelo Gabriele aveva rivolto alla Vergine Maria, nella casa di Nazareth: «Concepirai nel tuo seno e darai alla luce un figlio, che chiamerai col nome di Gesù; Egli sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre, e regnerà sulla casa di Giacobbe e il suo regno durerà nei secoli dei secoli» (Lc 1, 31-33). La regalità del nascituro, che “siederá sul trono di Davide, suo padre”, è un’investitura di Maria a madre di Cristo, Re, principe della pace (Is 9,6). L’episodio dei Magi si traduce nella domanda di fondo: «dov’è il Re dei Giudei che deve nascere» (Mt 2,1-12). Il re Erode fu turbato. L’iconografia dell’Adorazione dei Magi è sempre per sua natura un’immagine cristologica, che vede Maria Regina. Come potrebbe essere diversamente? La madre di un re è naturalmente regina. L’Oriente cristiano, e particolarmente l’arte antiochena, che servirà da propulsore e da reperto- rio iconografico cristiano per Bisanzio, figura Maria come Colei che presenta il Vincitore (Nicopeia). L’origine dell’immagine della Nicopeia è alle sorgenti dell’arte cristiana (Amato 1996). Cristo è il Vittorioso: Colui che ha vinto la morte e ha di- strutto l’Ades. Maria è Colei che presenta, per l’acclamazione e per il riconoscimento della regalità, il Vincitore. L’immagine della Nicopeia rappresenta la sintesi visiva che i cristiani fecero della Vergine e del Figlio. L’Annuncio dell’angelo a Maria trova nella Nicopeia il coronamento: il Re annunciato è ora nella gloria della luce eterna e nella regalità. La Vergine Madre lo manifesta nell’alfa della storia terrena di Cristo e nell’omega della vittoria. Maria trattiene il Figlio in piedi o sulle ginocchia, nel medesimo atteggiamento con cui un generale tratteneva uno scudo, nel quale significa- tivamente si poneva l’immagine del nuovo imperatore, di colui che aveva vinto i nemici: una mano è sull’omero, l’altra, in basso. Alla presentazione della imago-presenza, i sudditi si prostravano per il riconoscimento. L’atteggiamento di Nicopeia (il cui significato originario non può che essere la Vittoriosa) è ri- scontrabile non solo in Oriente ma anche a Roma, come vuole l’affresco votivo della vedova Turtura, del VI secolo, nella catacomba di Commodilla: Madonna col Bambino tra i santi Felice e Adautto, che sarebbe più esatto definire ora la Nicopeia tra i santi Felice e Adautto (fig. 4). Lo stesso deve dirsi della stupenda icona della Madonna con Bambino in trono tra i santi Teodoro e Giorgio (fig. 5), VI secolo, del Convento di Santa Caterina sul Sinai. La Vergine è una Nicopeia (Amato 1996, pp. 108-112). In quest’opera la regalità di Maria assume connotati più forti ed evidenti. Costituisce un testo base per l’interpretazione delle immagini mariane del periodo pre-iconoclasta e post-iconoclasta, fino al XIII secolo. La scena è impressionante. A somiglianza di un dogma, si colloca in un eterno che, luminoso, sovrasta gli uomini. L’habitat è imperiale. Il proto- collo, pure. Due angeli sono, come scolte, dietro la figura della Nicopeia, che trattiene sulle ginocchia il Logos, vestito dell’himation, abito imperiale, e del rotolo della legge. Il trono è preziosissimo. Perlinato. Ai lati, astanti, due santi guerrieri, parte- cipi anch’essi della vittoria del Cristo Luce. Stringo- no nella mano sinistra la croce aurea (Amato 1997, pp. 36-38), l’emblema vittorioso di Costantino, il simbolo del Signore Luce, di cui i cristiani attendono la seconda venuta. Indossano abiti di corte, tessuti ricamati in oro. I protagonisti terrestri guardano e fissano lo spettatore. Le due creature angeliche sollevano il capo, richiamate dall’alto, dove la mano di Dio Padre consacra il Vittorioso, che è seduto sulla Madre ed è affiancato da militari: il giovane Giorgio, che ha liberato la città dal drago, e lo stratega Teodoro.

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