La scoperta e il primo restauro del Portus Veneris
Nei primi anni del secolo, nelle campagne della città di Tricase, giaceva in stato di completo abbandono uno scafo dalle forme insolite rispetto allo standard che siamo abituati a vedere navigare nei nostri mari. Lungo circa quattordici metri; largo al baglio maestro circa un terzo della lunghezza dello scafo; linee di scafo molto stellate e basse sul mare, con la prora che ricorda un arco di cerchio perfetto e la pernaccia piuttosto pronunciata. Lo scafo mostrava i segni dell’ingiuria del tempo, dell’uso e della totale mancanza di manutenzione. Era uno dei tanti scafi della speranza, così come sono definiti gli autentici catorci che, carichi di disperati, affrontando – guidati spesso da individui senza scrupoli - il mare infido con mezzi inadeguati, nella… speranza appunto di trovare qui da noi quello che la loro Terra non può loro offrire: sicurezza, condizioni di vita umane, solidarietà e la possibilità di vivere lontano dalla violenza e dalle guerre. Giaceva abbandonato in un deposito di rottami, gravato da un provvedimento di sequestro giudiziario e, prima o poi, sarebbe stato demolito. I componenti dell’Associazione Magna Grecia mare di Tricase, nelle loro peregrinazioni per reperire testimonianze storiche e tradizionali della loro terra, vedono in quel rottame che al massimo avrebbe attratto l’attenzione di un demolitore, la barca che sarebbe diventata l’ammiraglia della flottiglia di barche di dimensioni inferiori che l’Associazione possiede e che usa per insegnare la navigazione a vela a quanti, tanti, vogliono impadronirsi di questa affascinante attività. Il relitto viene spostato nel porticciolo di Tricase, vicino alla sede dell’associazione. I Soci sono tutti professionisti, artigiani, commercianti ma dotati tutti di conoscenze, oltre che professionali, anche e soprattutto marinare, frutto dell’arricchimento culturale che la loro passione ha loro consentito. Il lavoro da fare è improbo; lo scafo ha bisogno di essere praticamente rifatto; le tavole del fasciame sono sconnesse, marce, il ponte è pericolante, i diversi strati delle vernici che, nel corso dei decenni sono state applicate (non ci sono date certe sull’anno di costruzione del bastimento: lo si fa risalire verosimilmente ai primi anni del secolo scorso), devono essere rimossi completamente per dare l’idea dello stato reale dello scafo. Con pazienza, con dedizione, sottraendo tempo alle normali attività post-lavorative, impegnando risorse in proprio, aiutati da mastri d’ascia locali Antonio, Tore, Francesco, Salvatore, Lamberto, Carlo e tanti altri, di entrambi i sessi (un esempio? lo “specialista” in nodi, legature, impiombature, cavi e cime, è una signora!), di cui non conosciamo il nome ma ne abbiamo sperimentato la grande passione, si gettano nell’impresa che parrebbe impossibile anche, forse ai professionisti del campo: il restauro della barca. Sostituiscono il vecchi propulsore diesel (era un motore camionistico Mercedes, che trasmetteva la potenza all’elica, attraverso il cambio di velocità, azionato dalla leva – questo dà un’idea di come era allestito lo scafo che ha affrontato e attraversato il mar Egeo, dalla Turchia al Salento, carico di profughi curdi) con un moderno motore da circa 150 hp, con tutta la linea d’asse. In coerenza con la missione dell’Associazione, non avrebbe avuto gran senso restaurare lo scafo per averne una motobarca. Allora si decide di farne un veliero. L’armamento a vela è un capolavoro perché realizzato con due alberi – realizzati dai soci, utilizzando travi quadrate di pino, lavorate per ottenere i begli alberi circolari rastremati verso la cima, sovrastati da formaggette sferiche, coperte, nella tradizione degli scafi levantini, con pelli di agnello. Vele latine, auto costruite con tela olona adatta, tagliata in ferzi cuciti accuratamente a mano, fissate alle ralinghe con cuciture a mano operate con maestria dai soci, nel frattempo diventati esperti velai. Viene rifatto gran parte del fasciame, rinforzate le ordinate, rifatta la coperta. Il problema più arduo si rivela quello di realizzare il complesso di manovre fisse e volanti che consentono la navigazione a vela. L’esperienza acquisita consultando i vecchi marinai che hanno cognizione della navigazione a vela, serve a far sì che si realizzi un complicato sistema di sartie (tre per ogni albero e per ogni banda, opportunamente parancate, per poter essere regolate e mantenere l’alberatura perfettamente verticale), pennoni di maestra e di trinchetto costruiti anche essi a mano, unendo due aste con legature di corda, dotate di collari e golfari per il fissaggio di carrucole, bozzelli, taglie e tutto il complicatissimo insieme di cavi e cime per la manovra delle vele, durante la navigazione. Quasi tutti gli oggetti accessori sono realizzati a mano. Le legature, le impiombature, il sistema di orientamento delle aste delle vele è pensato e realizzato dai soci, sulla base di documenti storici. Dopo le rifiniture di scafo, con la sua pitturazione nei colori tradizionali dei vascelli delle epoche passate (nero della pece e bianco della biacca), il Portus Veneris prende il mare e diventa quello che era l’obiettivo dell’avventura intrapresa tempo prima: l’ammiraglia della flottiglia dell’Associazione.
Autore: Tommaso Gaudio