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“La scelta”, le atrocità del conflitto bosniaco raccontate nel giorno della memoria
29 gennaio 2012

MOLFETTA - “La scelta” è quella della “banalità” del male, mentre il bene che, invece, è difficile e straordinario. Questo il senso dello spettacolo di Marco Cortesi e Mara Moschini (nella foto), tenutosi nell’Auditorium san Domenico con il patrocinio di Amnesty International. Nella giornata della memoria si sono ricordate cinque storie vere raccolte da Svetlana Broz, nipote del generale Tito, durante il conflitto bosniaco.
È quella che gli storici hanno definito «la pagina più nera dell’Europa dopo Auschwitz» e che purtroppo conta tre tristi primati: il più alto numero di vittime civili (circa il 95% dei caduti erano soprattutto donne, bambini, anziani e giovani, in nome di un’assurda pulizia etnica), il più alto numero di vittime italiane dopo la seconda guerra mondiale e, infine, la città di Sarajevo è quella che ha vissuto il più lungo assedio della storia (43 mesi).
Le storie rappresentate non sono state censurate nei loro aspetti più drammatici, né è stato realizzato un adattamento. Neanche per un momento si è cercato di nascondere la crudeltà dei soldati serbi sulla popolazione musulmana, o gli eccidi di intere città a maggioranza islamica, o le violenze sui bambini mutilati sotto gli occhi delle madri impietrite dal dolore.
Ma in ciascuna storia si apre un varco di speranza che illumina la solidarietà umana e che può vestire di volta in volta i panni di un vicino di casa che rischia la propria vita per portare un amico musulmano verso l’ospedale (da cui tenta la fuga a bordo di un’ambulanza per mettere in salvo la moglie e la figlia), o di un soldato cattolico che difende una vecchietta musulmana dalle cattiverie degli altri condomini perché gli ricorda sua madre. O ancora di uno sconosciuto che, senza chiedere nulla in cambio, aiuta una giovane mamma musulmana a raggiungere il figlio bloccato in una zona serba non più accessibile. Infine di un soldato che, durante un controllo, chiede sottovoce ad un’anziana signora, la quale per sbaglio gli aveva passato i suoi documenti autentici, di mostrargli quelli falsi, salvandola così da una fine atroce (scena che ha strappato un sorriso a tutti gli spettatori presenti).
Nella giornata della memoria bisogna ricordare anche questi esempi di straordinaria follia di uomini e donne che rischiano sulla propria pelle il coraggio dimostrato nell’aiutare un figlio o un amico o un vicino di casa o, in alcuni casi, un perfetto sconosciuto. «Questo è quello che ci riproponiamo di fare - ha spiegato Domenico Gagliardi, rappresentante del gruppo Amnesty di Molfetta - fare in modo che la gente passi dall’indignazione all’azione e che si attivi affinché tragedie del genere non accadano più».
L’arma che Amnesty ha messo a punto nel corso degli anni è stata quella della petizione per impedire che si spengano i riflettori su conflitti tutt’ora in corso, ad esempio, in Ruanda o in Sudan, e per spingere i governi, sotto la minaccia di sanzioni internazionali, ad assumere almeno una parvenza di democrazia. In questo modo, senza utopismo, senza vuota retorica, la memoria non resta inerme, ricorda le stragi e il coraggio degli eroi, uomini giusti durante i periodi più vergognosi della storia.
A noi, invece, non resta che «La scelta»: scegliere di informarci sulla storia del presente e prendervi parte attivamente, anche solo firmando una petizione.
 
© Riproduzione riservata
 
Autore: Marianna Gadaleta
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Tutta la storia è seminata di cadaveri, specie nei periodi di radicale trasformazione della società. E' questo il costo del “progresso”, il “prezzo della rivoluzione”, dice lo storico. Lo storico non può che dar atto del prodursi delle cose, senza condannare o assolvere. “lo storico non può dare una risposta soddisfacente al problema della sofferenza, più di quanto non possa farlo il teologo”. Anch'egli ricade nella tesi del male minore e del bene maggiore”. Nella storia, la sofferenza è di casa. Ogni grande periodo storico ha, accanto alle vittorie, le sue perdite. Si tratta di un problema quanto mai complesso, in quanto non disponiamo di in criterio che ci dia il modo di equilibrare il maggior bene di alcuni con i sacrifici degli altri: eppure dobbiamo servirci di una bilancia del genere. Nella vita di tutti i giorni siamo messi, più spesso di quanto non vogliamo ammettere, di fronte alla necessità di scegliere il male minore, o di fare del male perché possa verificarsi il bene. Nella storia il problema va talvolta sotto il nome di “costo del progresso” o di “prezzo della rivoluzione”. Ma si tratta di espressioni ingannevoli. Il costo della conservazione ricade sulle spalle dei non privilegiati nella stessa misura in cui il costo delle innovazioni ricade sulle spalle di coloro che sono spogliati dei propri privilegi. La tesi secondo cui il bene di alcuni giustifica le sofferenze degli altri è implicita in ogni governo, ed è una dottrina tanto conservatrice che rivoluzionaria. Prendiamo le vicende dell'industrializzazione dell'Inghilterra, per esempio tra il 1780 circa e il 1870. Di fatto, ogni storico giudicherà, probabilmente senza avanzare obiezioni, la rivoluzione industriale un fenomeno grandiosamente progressivo. Inoltre, descriverà i contadini cacciati dalla terra, gli moperai ammassati in fabbriche malsane e in abitazioni antiigieniche, i fanciulli sfruttati. Probabilmente affermerà che nel funzionamento del sistema si verificarono degli abusi, e che alcuni datori di lavoro erano più spietati di altri, per soffermarsi poi con una certa unzione sul graduale sviluppo di una coscienza umanitaria allorchè il sistema fu consolidato. Non ho mai incontrato uno storico che affermasse che, dato il costo, sarebbe stato meglio frenare il progresso e evitare l'industrializzazione…………………. E' raro che a pagare a raccogliere i frutti siano gli stessi che hanno pagato il prezzo necessario. A questo proposito vale, ahimè, il celebre e sanguinoso passo di Engels: “LA STORIA E' FORSE LA PIU' CRUDELE DI TUTTE LE DIVINITA', E CONDUCE IL SUO SACRO TRIONFALE SU CUMULI DI CADAVERI; E CIO' NON SOLO IN GUERRA, MA ANCHE DURANTE IL “PACIFICO” SVILUPPO ECONOMICO. E NOI, UOMINI E DONNE, SIAMO PURTROPPO COSI' SCIOCCHI DA NON AVER MAI IL CORAGGIO DI INTRODURRE UN PROGRESSO REALE SE NON VI SIAMO SPINTI DA SOFFERENZE CHE CI SEMBRANO QUASI INSOPPORTABILI”. (Tratto e condensato da E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, trad. di C. Ginzburg, Torino, Einaudi, 1966)
Due secoli fa, Immanuel Kant osservò che la natura ricorre a due mezzi per dividere i popoli, “la differenza di lingua e di religione”, che rendono entrambi a produrre “l'odio reciproco e pretesti per scatenare guerre”. Col passare del tempo, Kant sperava, il “progresso della civiltà” avrebbe alfine condotto ad un pacifico accordo tra tutti. Forse ciò potrà un giorno verificarsi, ma la realtà attuale sembra indicare che la strada da fare sia ancora lunga, e che il progresso della “civiltà” fatichi a tenere il passo con quelle tendenze che stanno trasformando il nostro pianeta e mettendo in forse i nostri tradizionali sistemi politici. Al contrario, le forze fondamentaliste, in parte come reazione al fenomeno della globalizzazione, acquistano sempre più forza, mentre finanche nelle democrazie i movimenti politici nazionalisti e xenofobi guadagnano terreno. Tutto ciò pone l'umanità dinanzi a un enigma, in quanto a dispetto di tutte le discussioni sul trasferimento dell'autorità e dei poteri, le vecchie strutture continuano ad esistere, e in alcuni casi vengono anzi ancor più difese. Può anche darsi che negli ultimi anni la nazione-stato abbia sperimentato una riduzione dei propri poteri, ma non c 'è dubbio che essa rimanga per la maggior parte della gente la principale entità caratterizzante: a prescindere da chi sia il loro datore di lavoro e cosa facciano per vivere, gli individui pagano le tasse allo stato, sono soggetti alle sue leggi, prestano servizio (quando necessario) nelle sue forze armate, e possono viaggiare solo se dotati del suo passaporto. Inoltre, dinanzi al profilarsi di nuove minacce, la gente si volge istintivamente (almeno nelle democrazie) ai propri governi affinchè questi trovino adeguate “soluzioni”. L'esplosione demografica mondiale, l'inquinamento atmosferico e la rivoluzione tecnologica hanno tutti un carattere transazionale, ma sono i governi e i parlamentari nazionali a decidere se abolire o no i controlli valutari, permettere o meno la biotecnologia, ridurre le emissioni delle fabbriche o istituire una politica di controllo demografico. Ciò non significa che essi avranno sempre successo, perché, rispetto al passato, la natura stessa delle nuove sfide riduce di molto la capacità di controllo degli avvenimenti da parte dei singoli governi. Questi ultimi, tuttavia, continuano ad essere la principale istituzione mediante cui le società tenteranno di rispondere alla sfida. In conclusione, anche se lo status giuridico e funzioni dello stato risultano in qualche modo sminuiti dalle tendenze transazionali in atto, non è ancora stato creato un organismo capace di sostituirlo in quanto entità organica meglio rispondente ai grandi mutamenti planetari. Il m odo in cui i governi delle singole nazioni prepareranno i rispettivi popoli al XXI secolo resta dunque un elemento di importanza vitale che nel momento in cui i tradizionali strumenti di cui essi dispongono, si dimostreranno sempre più inadeguati.
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