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La passione molfettese, tra riflessioni e tradizioni
22 marzo 2008

MOLFETTA - E' l'aria quasi mistica che quelle statue così austere quanto impalpabili nel proprio livello divino, infondono alle strade in una singolare fusione col mondo terreno, coi visi stanchi e affaticati dei confratelli, con la cera sciolta dal tempo insaziabile di passi e di note celate, lievi, come quelle del familiare Ti tè. E' quel clima astratto nella sua tipica commozione di fronte ad un rito che da religioso è diventato per molti esistenziale, è la Pasqua molfettese (nella foto, la Pietà in una elaborazione di Sofia Tridente). E' una tradizione troppo legata ai molfettesi per poter essere ignorata, un intarsio di consuetudini peculiari che hanno fatto assaporare la loro piacevole ricchezza di storia e suggestione anche a chi non crede. Un ritrovo mondano dei molfettesi in una serie di atti che hanno tratto la loro ispirazione dal loro genio e che hanno finito per caratterizzarne un momento, quello pasquale, e farlo diventare parte integrante della vita della gente. Dunque una tradizione non solo religiosa ma soprattutto storica e umana, ricca di elementi caratteristici, come il pizzarello, la visita ai sepolcri, le consuete marce funebri. Anche coloro che non credono nella parabola che simbolicamente le statue raffigurano, e che ne intravedono l'apparenza illusoria di una immagine persuasiva, finiscono con l'essere travolti dalla potenza espressiva di riti così inculcati nella nostra formazione da diventarne parte integrante. A parte coloro che sfruttano l'abito appariscente della processione, coi suoi vari e sfumati colori, per costruire un'immagine assolutamente priva di una coerente risposta di vita, la passione di coloro che davvero credono nella valenza simbolica delle processioni riesce a far rivivere nella gente un sentimento vicino ad una morale, ormai lontana, come quella cristiana. Una morale, quella della mortificazione dell'eccesso, del superfluo, che poco ha a che spartire con la morale dello spreco che l'economia riesce abilmente ad infondere in noi, fino a trasformarci in suoi strumenti. Il sapore familiare e vicino della processione, senz'altro più coinvolgente di tanti pretestuosi abusi di parole, riesce a comunicare la forza di un valore, il valore cristiano, e nello stesso tempo ricorda la vicinanza di Cristo alla posizione dell'uomo moderno. Come ci rivela il vangelo di Marco infatti, Cristo temette fino all'ultimo la morte, tremò a cospetto di essa, e non a causa del dolore che avrebbe sentito prima di morire, ma dell'oscurità della morte in sé. Un ideale ben distante da quello greco, di cui Socrate ci dà un grande esempio, in cui l'uomo era talmente integrato nella società da vivere la morte con estrema serenità, come necessario e positivo annullamento totale in vista del perpetuarsi della specie. Un Cristo insicuro come noi di fronte all'incertezza della morte, di fronte ad un mondo che mette in primo piano l'individuo, e non il suo inserimento in una realtà sociale. Proprio questa esaltazione dell'individuo come elemento isolato ha portato all'edificazione del complesso sistema post mortem di una vita ultraterrena, a testimonianza del fatto che l'uomo cristiano non riesce a vivere la propria morte con serenità, in funzione sociale. La parabola, dunque, può costituire lo spunto per una grande varietà di riflessioni; dalla futilità di un sistema in cui l'uomo è dominato dal superfluo e quindi dalla tecnica piuttosto che dalla necessità e dalla virtù, ad una realtà in cui la società non è intesa come la potenza collettiva della comunità, ma addirittura come un'entità politica estranea all'uomo stesso, solo ed immerso nel suo egoismo. Del resto la parabola e gli espedienti simbolici come le processioni dovrebbero fungere da veicoli per la trasmissione di una filosofia, quella cattolico-cristiana, la cui ricchezza di contenuti non può essere messa in dubbio, al di là della credenza. Il punto è proprio questo: impegnarsi nello sfruttare la potenza espressiva, che tradizioni come le processioni molfettesi hanno raggiunto, per fini etici e morali. E allora lo spettacolo del Cristo morto che, di fronte alla folla resa inerme dalla solennità dell'ennesima ritirata riuscita, o dalla imperiale Pietà, che mostrerà ai molfettesi il suo dolore struggente, troppo grande persino per il cuore di un uomo, concederà ancora a quest'ultimo il piacere della tradizione.
Autore: Giacomo Pisani
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