La parola abitata
Operazione pregevole appare il volume “La parola abitata”, silloge di componimenti poetici di Gina Tota, nata a Sulmona, ma ormai da decenni attiva nel panorama culturale molfettese. L’opera è frutto di un accurato e certosino lavoro di selezione delle rime composte dalla scrittrice tra il 1985 e il 2010 operato dalla F.I.D.A.P.A. B.P.W. (sezione di Molfetta), tesa a promuovere la “valorialità femminile” (come spiega nella premessa il presidente dell’Associazione, Marianna Nappi Mancini); lucida l’introduzione di Nicoletta de Palma, che focalizza perfettamente la natura dell’ispirazione della Tota. Il volume, stampato presso l’azienda grafi ca L’Immagine, rappresenta, inoltre, un attento connubio tra fotografi a e arte poetica: con i versi della scrittrice dialogano le suggestive foto di Gaetano Armenio, dal seducente e rétro graffi to di copertina agli enigmatici scenari di casolari in abbandono, in cui persino le crepe dei muri sembrano evocare misteriose presenze. La silloge è stata presentata con gran successo presso la “Sala B. Finocchiaro”: sono intervenuti, oltre a Marianna Nappi Mancini, a Gaetano Armenio e alla Tota stessa, una rappresentanza del Distretto Sud Est della F.I.D.A.P.A., Fabiana Aniello in qualità di voce recitante, e Vito Vilardi alla chitarra. Nella lettera in Appendice al volume, Orazio Panunzio scrive alla Tota che “la sua voce ha risonanza pura, com’è il canto dell’usignolo prima dell’aurora”. Ritengo che nessuna defi nizione della lirica della poetessa in questione potrebbe essere più calzante e veritiera di questa. Numerose sono le corde dell’ispirazione di Gina Tota. Una di queste, forse la più possente, è il risentimento civile. Il mal d’Africa della Tota consiste infatti nell’amara considerazione che, se come ci dicono gli antropologi il Sapiens sapiens avrebbe la sua origine in un’Eva nera, per i fi gli di quella ch’è stata la nostra progenitrice non c’è se non una rapinosa schiavitù. Proprio come per quelle donne incanutite prima del tempo che “hanno sulla bocca / frammenti di preghiere / e di bestemmie”. La bestemmia e la preghiera coesistono armonicamente nella produzione della Tota; sono due rivoli a volte in improvvisa intersezione. Tornando al risentimento civile, spesso la scrittrice assume il cosiddetto “sguardo obliquo”; privilegia l’ottica degli ultimi, degli oppressi per mostrare quanto ingannevoli siano i valori alla base della nostra civiltà occidentale. Uno dei testi meglio riusciti è proprio quello dedicato agli effetti nefasti della scoperta dell’America. Si riscontra una tendenza al realismo espressivo, ch’è propria anche di altri componimenti: vivida è la metafora sessuale del progresso che “cammina sulla sua vulva oceanica” e mascolinamente rutta “le sue cinquanta stelle / di gloria”. La querela contro i conquistadores evidenzia un altro aspetto importante della vena della Tota: la scelta dell’aggettivazione è attenta ed evocativa; l’attributo non è mai puro ornamento. Nasce così l’immagine, vigorosissima e suggestiva, di Colombo che per la rabbia si strappa dal petto il “cuore nautico” e bestemmia in spagnolo (la lingua che dovrebbe usarsi per parlare con Dio...) contro la propria “alchemica curiosità”. L’uso dell’aggettivo “alchemico” schiude una serie di prospettive signifi cative: gli alchimisti tendevano a varcare i confi ni dell’umano (proprio come Colombo); nella loro spesso vana ricerca della pietra fi losofale volevano acquisire l’immortalità e scoprire la panacea di tutti i mali. A volte la meditazione sulla società si fa amara melanconia, come quando la Tota sembra voler ninnare i morti dell’Aquila; altre diviene grido di rabbia, nel momento in cui si adombra la piaga della pedofi lia nell’icona dei bambini che vanno incontro a lupi dall’aspetto d’agnelli, credendo di vivere in una favola... A tratti, la poetessa impreca contro il “destino beffardo” che la condanna alla solitudine. Oltre che con Alda Merini, la Tota presenta notevoli affi nità di sentire con la scrittrice lucana Assunta Finiguerra: come lei immagina il proprio funerale in cui alla solitudine, quasi un convitato di pietra, sembra riservato il posto d’onore. In alcune situazioni, invece, la poetessa va epigrammando contro un “malamore” a cui sarebbe stato meglio non spalancare la propria porta. Proprio come nella lirica greca, spesso la Tota riesce a concentrare, in pochissimi versi, espressioni di una potenza immaginifi ca notevole. La poesia della Tota si caratterizza anche per un’evidente vena surreale, vena viva nella poesia del nostro Sud (penso ad esempio a Bodini), cui la poetessa dichiara orgogliosamente di appartenere, affermando con vigore che Cristo è del Sud, perché rivive quotidianamente nella laboriosa umiltà dei nostri pescatori segnati dal vento e nei contadini dai lineamenti scolpiti dal sole. Il surrealismo della Tota si manifesta nelle mistiche scenografi e che la sua penna disegna, in bislacche fi lastrocche, in una sorta di bucato dell’anima, perché s’asciughi il dispettoso umore del dolore. Una delle sue prove più riuscite è in quel Jazz poetico, in cui la fantasia partorisce un’immagine bellissima, che, avrebbe detto De Sanctis, sembra venuta fuori dalla “bottega di un cuciniere”: il Caos insegue, con la sua “faccia grassa / da macellaio”, la poetessa che a sua volta corre dietro a un sogno. Tutto questo mentre “la luna gatta / fa le fusa col gomitolo mondo”. Un’analogia che comunica un senso di tepore ristoratore, mentre il mondo sembra vorticare all’impazzata. La luna, come la bestemmia, è un nume tutelare di questa poesia: presenza continua, cui la poetessa guarda con risentito amore, arrivando anche a tessere un elogio dei lunatici (così venivano chiamati i matti, quando si credeva che il loro modo di essere fosse infl uenzato dalle fasi lunari). I matti hanno qualcosa in comune con Gina: “hanno larghe fi nestre nel loro cuore”. Queste fi nestre alla Tota le dischiude la poesia. Una poesia nata, direbbe Gozzano, “dall’acciottolio delle stoviglie”, ma più che altro per sottrarsi a esso: alla voce materna che richiama al dovere, la Tota risponde “per le rime”, dice lei, vagando per le strade in cerca della Poesia. Ma forse questo errare non ha ragione di sussistere: la poesia abita in lei e lei abita nella parola poetica. Le basta scrutare una coppia di pupi adagiati su una parete per fi gurarsi Orlando e Rinaldo nel loro avventuroso “giravoltare”, per usare un termine di Calvino; già Ariosto sapeva che le loro inesauste ricerche a zonzo per il mondo, e fi nanche sulla luna, in fondo non avevano senso, ma servivano a dar senso alla vita. E un signifi cato profondo è insito anche nella poesia di Gina Tota: ci ricorda che in ognuno di noi abita un marinaio in quel nostro “eterno andare e tornare, tra l’umore cangiante del mare”. Che in ognuno di noi rivive l’anima di Giuda, che per soli trenta denari tradì la verità; sta a noi far tacere la brama della “verde moneta”. Soprattutto, questa poesia ci insegna che se non sapremo pazzamente lasciar piroettare il nostro senno tra le stelle, saremo morti ancor prima di nascere.
Autore: Gianni Antonio Palumbo