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L’omaggio al pittore Antonio Nuovo Gianni Antonio Palumbo
15 gennaio 2020

L’esposizione allestita a Molfetta in onore di Antonio Nuovo tra dicembre e gennaio, ancora visitabile sino al 31 del mese presso la Sala dei Templari e la Galleria 54 Arte Contemporanea, è stata coronata dalla pubblicazione di uno studio del prof. Gaetano Mongelli, storico dell’arte, dedicato al pittore molfettese. Saggio che si colloca sul solco di un precedente lavoro, Un protagonista silenzioso della pittura pugliese del Novecento, Antonio Nuovo (Molfetta, 1926-2008), pubblicato nel dicembre 2011 su «Enkomion storia letteratura arte». Il volume è preceduto da una dedica in versi del Sindaco a Nuovo, “amico (…) di lune di fanciullo che reclamano cambiamenti di valore”, e da una riflessione dell’Assessore alla Cultura, Sara Allegretta, ricca di spunti. Tra questi ricorderemo le osservazioni sull’“azzurro così mediterraneo, il colore delle divinità, del trasformismo e della trasgressione”, caro alla pittura di Nuovo. Non mancano doverosi e sentiti ringraziamenti a Maria Colamartino Nuovo, che, mettendo a disposizione della Città le opere, ha permesso la realizzazione della mostra, e a Franco Valente, Michele e Susanna Vitulano, i quali si sono occupati dell’allestimento. La breve e densa monografia di Gaetano Mongelli ha il potere di inquadrare l’esperienza di Tonino Nuovo nel panorama della storia della cultura e dell’arte italiana, dagli esordi del pittore negli anni Quaranta, sino alle sue ultime prove, al volgere del nuovo millennio. Un’esperienza che, come suggestivamente asserito nel finale, non è mera questione “di immagini che giungono agli occhi, ma di brividi che attraversano la schiena”. Del resto, lo diceva Benedetto Croce, “se i pittori fossero (…) combinatori di linee e luci e colori con industre novità di ritrovati e di effetti, sarebbero inventori tecnici e non artisti”. Antonio Nuovo è stato capace, nella sua opera, di rivelarci meglio a noi stessi, come ogni artista degno di questo nome è in grado di fare. In un percorso impreziosito da fotografie d’archivio, Mongelli muove dalla nascita di Nuovo, da Elisabetta d’Elia, nata ad Alessandria d’Egitto, e da Nunzio Nuovo, “ornatista della pietra”, per proseguire con la sua formazione e i suoi esordi. Dalla mostra “allestita nei locali del ‘Circolo Unione’ ci volgiamo quindi alla partecipazione, grazie a Enrico Panunzio, a un’esposizione romana che valse a Nuovo l’apprezzamento di Guttuso e alla presenza in un’importante collettiva di Cesenatico e oltre. Mongelli ha la capacità, frutto del sapere enciclopedico ormai appannaggio di pochi studiosi, di condurre per mano il lettore in un intreccio straordinario di rapporti. La storia di Tonino Nuovo finisce così con l’intersecarsi con i percorsi di letterati e intellettuali che hanno scritto pagine importanti della cultura italiana e, purtroppo, oggi sono talvolta caduti nell’oblio. È il caso, per esempio, di Dante Arfelli, autore dei Superflui, che curò il catalogo dell’esposizione di Cesenatico, ma anche di Gino Montesanto, letterato di origine veneziana cui Nuovo si avvicinò per il tramite di Panunzio. E che dire della sezione dedicata ai rapporti con il Cavalletto o – ancor prima – con il Sottano di Armando Scaturchio, che – con la rievocazione di questo “filodrammatico- pasticciere” – ha il sapore di una ballade du temps jadis? La riflessione di Mongelli percorre i differenti rivoli nei quali si è estrinsecata la creatività di Nuovo. Pienamente condivisibili ci appaiono le annotazioni sugli Arcani, declinazione dell’“usuale adesione” all’Espressionismo e crocevia di suggestioni che vanno dalla “letteratura combinatoria” del Calvino alla memoria dell’Ancien Tarot de Marseille. Immagini come quella del Diavolo della raccolta Colamartino-Nuovo non fanno che confermare quanto lo storico scrive in merito all’ironia di Nuovo, che, piuttosto che consistere in “beffe” o “attacchi frontali”, si insinua “col negarci le certezze, svelandoci così il mondo come ambiguità”. Nel saggio, del resto, si affronta frequentemente anche il motivo del “mascheramento”, dell’assunzione della Narrenkappe, quel cappuccio del giullare che, nella bachtiniana carnevalizzazione, consente di dire la verità, nient’altro che la verità. È stata una ricerca inesausta quella di Nuovo, che, “nell’orto mai concluso” della sua pittura, lo ha portato a sperimentare molteplici soluzioni, dalla densità rappresentativa della “matitina” del 1951 alla felice “rosa di contaminazioni moderniste” esaminata con acume da Mongelli. Ci appare particolarmente interessante il rapporto con la pittura di Rothko (ci sembra di coglierne una mellificazione anche in marine successive agli anni Sessanta) e con le “sigle trine” di Capogrossi. Affrontando l’analisi dei Capogrossi di Antonio Nuovo, Mongelli ha modo peraltro di soffermarsi su una pratica del “duplicato” che, piuttosto che configurarsi come mera ‘rimasticazione’ dell’originale, assurge quasi a ‘distillazione alchemica’ a partire dal modello, per poi porsi come suggestione all’origine di percorsi originali. È quanto avviene per un Volo di corvi del 1966, in cui i “forchettoni” del Capogrossi – con la mediazione anche di un je ne sais quoi di Kline – hanno subito la metamorfosi in uccelli che si stagliano sulle “tinte aranciate del cielo”. La tensione del Nostro alla sperimentazione non è stata dilettantistica idolatria del nuovo, perché il pittore è rimasto sempre fedele alle matrici della sua ricerca e della sua arte, resistendo talora ai richiami di tendenze di successo (si veda il caso della “Nuova figurazione” di Crispolti). Tale ricerca gli ha consentito di esprimere bellezza anche attraverso la pratica della deformazione e la poetica del “brutto”, “che, a sua volta, va intesa sotto forma di bello ‘caduto e degradato’”. Molto suggestiva la sezione conclusiva, dedicata all’arte sacra, dotata di una “sconvolgente” espressività, come nel “fotogramma del Volto di Cristo” o nel Cristo deposto cui è dedicato il finale. L’omaggio di Mongelli e della Città a Nuovo è meritatissimo tributo a un artista schivo e poco amante delle luci della ribalta. Un pittore dotato del potere di uno sguardo “azzurro”, capace di rivelare il reale, trasfigurandolo, tra momenti di incanto e/o ironia. Un pittore che è e resterà uno dei numi tutelari dell’arte della nostra terra. © Riproduzione riservata

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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