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L'anonimo dell'infinito La musica negli aforismi di Francesco Mezzina
15 febbraio 2013

Nell’anno undecimo dell’Era Fascista, il 1933, per la tipografia di Stefano De Bari in via S. Angelo a Molfetta, il giudice Francesco Mezzina (1887-1976) dà alle stampe il libro Il guardiano della soglia. I fini, forse involontariamente parenetici del suo discorrere spesso pungente, sono evidenti in ognuno degli aforismi raccolti in ordine alfabetico a mo’ di vocabolario. Narra e manifesta le sue idee, che ovviamente non sono destinate a folle nemmeno alfabetizzate, ma rivolte alla borghesia illuminata del tempo, alla sua specificità. Tra le righe aleggia, tuttavia, lo spirito di un altro suo libro, di là a venire, alla fine di un lungo periodo giungente al 1953, Il mistero del Golgota ; è infatti evidente la ricerca commovente di Dio che Mezzina persegue attraverso il continuo profetizzare di Gesù e della sua morte in Croce per redimere il mondo. In questo forzatamente breve articolo mi limiterò a commentare gli aforismi della musica, non altri, giacché in ogni caso nessuna recensione, ma la lettura attenta, può rendere a pieno la finezza intellettuale, la cultura del loro autore. Per questi la musica ha un qualcosa di metafisico giacché è memoria affettiva sintetica di lontana origine, che fa ebbro di sentimento l’inesprimibile dell’idea. Effluvia dalla sintesi inconscie dello spirito, pervade e raduna tutto l’inespresso che attende, lo infervora di destino melodiandolo di divinazione, si effonde verso i termini spirituali dell’uomo e ricade riconciliata nella opacità dell’anima. Contemporaneo del compositore Ildebrando Pizzetti, Mezzina ne elogia l’opera Debora e Jaele; scrive che con Pizzetti è la musica che vuole appropriarsi dei cantanti per rivelare tutta se stessa. Peggio per i cantanti se la musica del medesimo si fa ampiamente subliminale. Qui è l’ignoto che domina, non il baritono: è la musica dell’avvenire. In Debora e Jaele emergono le voci che scivolano su tormente impetuose di musica, sfondi di universo che avanzano e rissano? Intorno alle intonazioni tragiche dell’uomo. Della musica di un altro autore del Novecento, Riccardo Zandonai, afferma che è musica in ampiezza teutonica […] e che l’auditore non può ripetere con le labbra, sì invece col sogno! In Mascagni, Mezzina intravede il dolore che sogna di essere felice. Poesia d’Italia. Emblematica la definizione della musica tedesca che contiene l’anonimo dell’infinito; sottolinea vieppiù la grandezza di Beethoven che destando cori nell’universo musicava epopee d’infinito come anche le opere del titanico Wagner, lava che scorre tarda e tormentosa da tutti i depositi delle cause e degli effetti fuori nell’incubo. E’ potentemente metafisica. E’ così ciclopica di imminenza sull’anima dello spettatore, da intimorirlo. Pittoresca la descrizione che Mezzina propone dei finali fragorosi delle opere teatrali (vi è forse un involontario riferimento alle opere eseguite dalle bande in piazza?): il maestro giunta la fine dilata la musica […]quando[la folla] non tiene più, scoppia con urli e battimani. Senza ragione una folla non esce da teatro! Austero torna ad essere il giudizio quando discorre di Paganini, estasi musicale acrobatica sulla quarta corda, dopo averne fulminate altre tre. La visione di Mezzina, dannunziano nell’ amore per l’Arte tout court, è ben chiara. Il suo “sognare”, la sua spiritualità sono pervasi da pura religiosità, come quando scriverà che il giorno di Natale dobbiamo chiedere perdono ai bambini, se sono loro che colmano le nostre mani vuote di tutto quello che abbiamo perduto col vivere separati dal Cristo (Il mistero del Golgota). A corredo dell’articolo, oltre che la foto di un suggestivo tramonto fotografato da Mezzina alla fine degli anni ’50 del Novecento dal balcone della sua casa (nel centro storico a Molfetta), si propone quella che raffigura il giudice-filosofo al tavolo del suo studio databile ai primi anni ’30 del Novecento. Credo che inequivocabilmente, per ogni artista, l’ordine-disordine della scrivania esprima la quintessenza di chi la vive, non come affermò il pessimista impiegato praghese, Franz Kafka nei suoi Diari (Marco Belpoliti, Il sole 24 ore, 20 gennaio 2013): ora osservo con più attenzione la mia scrivania e ho concluso che non si può cavare niente di buono, 24 dicembre 1910.

Autore: Giovanni Antonio del Vescovo
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