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Inchiesta sull'emigrazione intellettuale. Diverso parere
15 ottobre 2005

Caro direttore, del mensile “Quindici” penso siano da condividere tutte le battaglie civili e politiche intraprese. Ma questa volta, col servizio sull'emigrazione, non ci siamo; e mi permetta di dissentire del tutto. Premetto che su una cosa - presumo – siamo d'accordo: le responsabilità della classe dirigente locale, passata e presente, sono enormi. Si può anche concordare che non sarà un senatore Azzollini a sudare per lo sviluppo della città. Detto questo, andiamo oltre. Sul piano astratto: che senso storico ha, parlare di emigrazione, oggi, da Molfetta, in presenza di flussi migratori di natura mondiale? Nella città in cui vivo sento parlare russo e cinese, serbo-croato e arabo, albanese, portoghese e spagnolo: e ci si preoccupa dell'emigrazione da Molfetta a Roma? E poi – sempre sul piano astratto – ce lo immaginiamo un biscegliese che nasce, vive e muore a Bisceglie; e lo stesso dicasi del pechinese e del francofortese? Non è il luogo a fare gli uomini, ma sono costoro a fare i luoghi, verrebbe da replicare agli intervistati. Per definizione, le tre grandi religioni monoteiste si affidano al nomadismo, alla predicazione itinerante. E la tenda di Abramo, aperta com'è ai quatto lati, all'ospitalità dei viaggiatori, dei nomadi, ne è il simbolo, come a ricordarci che tutti siamo migranti. Agli intervistati che lamentano di non avere avuto la possibilità di dare il loro contributo allo sviluppo della terra in cui sono cresciuti, replico freddamente che questa è ideologia demagogica, che starebbe bene nelle riflessioni di una Guardia padana. E' il contributo che dai alla terra in cui ti fermi che giudica la qualità della tua scelta civile e politica. Cambia forse qualcosa, se il contributo lo dai a Roma, Milano o Calcutta e non a Molfetta? Questo significa ridurre il luogo al Mondo, le Terre alla propria Terra, mentre è necessario il contrario: estendere il Mondo al Luogo. Non è un caso che, tra gli intervistati, chi dice che non pensa di ritornare è proprio colui che ha scelto di non fare il pendolare ogni fine settimana. Viceversa, il pendolare confessa amaramente di vivere per lavorare. C'è da credergli: passa i giorni liberi a viaggiare in treno! In concreto, cosa significare fare di tutto per non emigrare? Nella fattispecie storica molfettese – e meridionale, in genere – significa legarsi a qualche politicante, ovvero a qualsiasi potente del campo, aspettando un concorso pubblico fasullo. Questo significa che la tua vita è segnata per sempre dal rapporto con quel tale che ti ha aiutato a vincere il concorso fasullo. Naturalmente sono un emigrato; e ho scelto anche di non tornare. Tornare a qualcosa è sempre un'illusione perché non si è mai ciò che si è stati. Ho fatto questa scelta per più motivi. Intanto, quale potente avrebbe potuto aiutare un tale – il sottoscritto – che, insieme a qualche centinaio di altri estremisti nella villa comunale aveva osato disturbare un comizio dell'on. Lattanzio, ritenuto tra i responsabili, in qualità di ministro della Difesa, della fuga di un criminale nazista dall'Italia? (Il futuro Tonino settecasacche, se non ricordo male, non era presente in quell'occasione). Ha ragione da vendere il sociologo, a parte qualche sviolinata non proprio condivisibile: c'è da temere per chi rimane – definiamoli: i molfettani - , non per chi va via – definiamoli: i molfettesi. Perché di una cosa possiamo essere sicuri: i potenti, i figli e nipoti e parenti vari dei potenti, via non andranno mai. E tuttavia, questa patetica constatazione non deve certo disturbarci. Nei primi anni, quando tornavo a Molfetta, il distacco mi faceva misurare l'imbarbarimento della città. Quand'ero partito, ad esempio, la città vantava quattro sale cinematografiche; ora ne aveva una. Via da Molfetta, avevo avuto la possibilità di fare ciò che avrei voluto fare, senza rendere omaggi al potente di turno. Salutare era il tornare a Molfetta: registravo i limiti dei molfettani e quelli della zona in cui m'ero stabilito. Sentivo crescere il vantaggio delle doppie radici. Avere le doppie radici ti conduce a capire meglio i limiti del luogo da dove vieni e quelli del luogo dove vai: un mio amico ebreo, che sulla pelle ha patito le leggi razziali sfuggendo per un pelo alle SS, definisce “brescimani” i bresciani. In onore del Witz ebraico, mi permetta di definire “molfettani” tutti coloro che si adattano a Molfetta, pensando che il massimo del piacere sia comprare le paste la domenica da qualche bar rinomato, ovvero mangiare del pesce fresco. Le racconto un aneddoto. Nei primi anni Ottanta, quando ascoltavo i discorsi al Nord contro i meridionali; quando mi si rifiutava di affittarmi una casa perché meridionale, mi chiedevo come mai non fosse ancora sorto un imprenditore politico di queste culture. Una volta ebbi anche occasione di parlarne con un mio amico, ottimo storico impegnato in politica e attualmente altrettanto ottimo sindaco della città in cui vivo: cadde dalle nuvole, meravigliato del fatto che persistessero ancora questi atteggiamenti. Tre anni dopo quella quella caduta dalle nuvole, la Lega cominciava a mietere i primi successi elettorali. Naturalmente, ognuno di noi si crea un'immagine ideologica di sé e della propria vita. E qual è la tua, ha lei il diritto di chiedermi? La risposta è che nel mio studio è esposta una foto di un noto critico letterario tedesco morto suicida per non cadere nelle grinfie dei nazisti, perché ambisco riflettermi in quella generazione di intellettuali ebrei tedeschi emigrati dalla Germania nel 1933. La loro fu una scelta necessaria e terribile: che tuttavia li salvò dai forni crematori. E tuttavia, nel mio caso come in quelle di decine di compagni della mia generazione che scelsero di emigrare, quale politicante avrebbe potuto darci fiducia, darsi da fare per un concorso fasullo che agevolasse una masnada di comizi? Noi, più modestamente, ci siamo salvati dalla molfettanità e abbiamo coltivato la molfettesità quale una delle due radici. E siccome credo veramente che le doppie radici esistono, che il Luogo è il Mondo, qualche anno fa, mi sono permesso di intrupparmi in un corteo del locale centro sociale che intendeva ricordare - un po' bruscamente, forse - al sen. Bossi che nessuno è straniero da nessuna parte. Fra urla di dolore dei manifestanti per le manganellate distribuite a piacimento, stretti in un vicolo senza via d'uscita, insieme a qualche altro centinai di esagitati, ho provato la medesima sensazione di venticinque anni prima. Con un merito in più: questa volta non si trattava di protestare contro un pacioso ministro democristiano, ma di rendere inoffensiva la teppaglia razzista in nome dei morti delle carrette del mare, dando voce a tutti i disperati della terra. Perdonerà le riflessioni un po' troppo sincere. Mi creda comunque suo, tant'è che domattina rinnovo l'abbonamento a “Quindici”. Walter Sorelli
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