Il lavoro uccide al Sud
Al Sud il lavoro uccide. Si muore di lavoro, ma anche di non lavoro e Molfetta, purtroppo, non fa eccezione: suicidi disperati di chi l’occupazione non ce l’ha o l’ha perduta e poi morti bianche per mancata applicazione delle norme di sicurezza. Nel terzo millennio si muore ancora di lavoro: nel 2013 hanno perso la vita ben 1.200 lavoratori, 4 al giorno, una terribile statistica di una tragica realtà. Primo Levi, parlando dell’Olocausto, scriveva che chi dimentica il passato, è condannato a riviverlo e Molfetta sembra aver dimenticato un passato non lontano, di appena 6 anni fa, quando la tragedia del Truck Center con i suoi 5 operai morti, scosse le coscienze. All’epoca furono riversate fiumi di parole e di promesse: mai più morti bianche. E oggi ci ritroviamo con altre due vittime del lavoro quasi nelle stesse condizioni. E non si venga a parlare di «tragica fatalità», facile dirlo per non turbare le nostre coscienze e soprattutto quelle di coloro che non applicano le norme di sicurezza. Certo, c’è la crisi e occorre risparmiare, ma la vita di un uomo vale più dell’ottimizzazione dei bilanci aziendali? E torna l’amletico dubbio: morire di lavoro o morire senza lavoro, che ha avuto la sua concreta realtà nel caso dell’Ilva di Taranto, dividendo i lavoratori. Ma così si torna indietro all’Ottocento o al primo Novecento, quando gli operai delle miniere oppure di altre attività a rischio sceglievano quel lavoro consapevoli delle crudeli conseguenze. All’epoca l’alternativa era la fame per sé e la propria famiglia. E così oggi di fronte a questa tragedia, ci interroghiamo e avvertiamo un senso di impotenza. E’ difficile dare risposte: quando muore un lavoratore è sempre un passo indietro nel campo di diritti conquistati con dure lotte e anche sacrifici di vite umane. E’ vero, se ci affidiamo alle statistiche registriamo meno morti di qualche anno fa. Ma perché c’è meno lavoro: un’equazione indiscutibile. Che senso ha continuare a parlare della nostra Repubblica fondata sul lavoro, se di lavoro si muore? E si muore nell’indifferenza, mentre i diritti sono chimere. Eppure basterebbe applicare le leggi. In questa materia in Italia ci sono. Anzi, forse sono troppe. E troppo costose. Esistono inutili sovrapposizioni e contraddizioni, basterebbe semplificare e soprattutto applicare. Manca una cultura della sicurezza: colpa del disprezzo delle regole praticato e diffuso negli ultimi vent’anni dal berlusconismo imperante e dal falso liberismo pro domo sua, che ahimè, resiste ancora. Per applicare le leggi che esistono, occorre fare severi controlli, colpendo anche la corruzione dilagante che li impedisce o li rende inutili. Che fine hanno fatto gli scrupolosi controllori del lavoro di alcuni anni fa? Oggi, in qualsiasi campo si lavora con superficialità. Il livellamento verso il basso favorito dalla mediocrità al potere, ha portato al risultato di un’Italia fanalino di coda, al declino del made in Italy a favore del made in China. E’ il trionfo del peggiore populismo: la massa che si illude di contare, ma che viene strumentalizzata per l’interesse di pochi. Occorre destinare maggiori risorse alla sicurezza e serve una politica economica che consenta alle imprese di investire di più. Lo stesso sistema dei controlli dovrebbe premiare chi investe, attraverso la detassazione, facendo pagare di più chi non lo fa. E’ indispensabile un nuovo patto sociale che possa premiare la qualità del lavoro: è questa la cartina di tornasole della civiltà di una società, come altri paesi ci insegnano. Ma occorre soprattutto creare il lavoro, perché come dicevamo prima, di disoccupazione si muore e i suicidi di chi perde il lavoro o non lo trova, stanno lì a dimostrarlo. E anche questo non può essere liquidato come tragica fatalità. L’altra strada è quella dell’incentivazione degli investimenti esteri. E qui scivoliamo nell’altra piaga italiana: l’altra sicurezza, anche questa trascurata per anni alla ricerca facile del consenso, come è avvenuto a Molfetta. Il risultato? L’aumento della criminalità con un crescendo culminato, per ora, in un’esecuzione tra la folla al mercato settimanale, con grande tranquillità e precisione. Siamo ormai oltre la microcriminalità, al sistema mafioso. E questo deve preoccupare tutti, al di là del singolo episodio e delle sue motivazioni che potranno essere anche passionali (ma non ci convincono). Farsi beffe delle regole, come è avvenuto per anni, quando è stata insinuata la cultura dell’illegalità diffusa, vuol dire favorire la degenerazione sociale. Anche quando si viola il divieto della Ztl (zona a traffico limitato) parcheggiando davanti al duomo e facendosi beffa dei controlli. Ma l’opposizione di centrodestra che fa? Tace, anzi critica le multe eccessive, si assenta quando il prefetto interviene in consiglio comunale. La destra, una volta paladina della legalità, oggi paradossalmente tutela l’illegalità, per non perdere consensi e voti. A chi non piacerebbe l’assenza di regole: parcheggiare dove si vuole, attraversare le zone pedonali per evitare lunghi giri, costruire sulle lame e a ridosso delle spiagge, trasformare in ville capannoni diroccati, realizzare appartamenti dai vani tecnici e così via. E questo col consenso di chi dovrebbe controllare e vietare. Ecco perché danno fastidio gli amministratori che non tollerano illegalità, cercando di rimettere ordine ad un territorio devastato e a una città degradata. Criticare è facile, soprattutto quando non si hanno altri argomenti o proposte alternative. Che opposizione, povera di idee, progetti e fine a se stessa, è quella che critica l’asfalto sul piazzale del duomo (brutto e inopportuno) o la collocazione di un’opera d’arte sul retro dello stesso? Meglio lasciare le auto parcheggiate davanti e dietro, simbolo della società dei consumi e relegare magari in periferia un’opera scomoda come quella del «Mausoleo ad Icaro» del famoso scultore Antonio Paradiso che rappresenta un’auto schiacciata fra due massi. Ma l’ignoranza dilaga e la presunzione pure. Occorre educare i cittadini, anche con scelte impopolari, ma se l’educazione manca agli amministratori cosa si può insegnare? A rimetterci è la città e la qualità della vita dei suoi abitanti. Buona Pasqua ai Lettori e che la Passione del Signore insegni l’umiltà a tutti e il cammino alla «sequela di Cristo sul passo degli ultimi» come predicava don Tonino, mettendosi al servizio degli altri e non servendosi degli altri per i propri interessi. Non basta restaurare una chiesa, frequentare le processioni o i sacramenti per essere un buon cristiano, occorre il rispetto dell’altro, altrimenti il popolo sceglie Barabba. E ci piace concludere con una meditazione di Papa Francesco che ci ricorda tanto il nostro don Tonino. Il Santo Padre nella Domenica delle Palme ci ha fatto riflettere su un interrogativo ancora attuale: «Sono io come Giuda che fa finta di amare Gesù e bacia il maestro per consegnarlo? Per tradirlo?». Oggi si tradisce ancora per 30 denari, purtroppo prevale l’egoismo individuale sul bene comune. Invertiamo la tendenza se vogliamo salvare i nostri figli e il nostro caro paese.