L’incipit del romanzo di Paul Nizan “Aden Arabia” recita: “Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Non concorderò mai con lui. Nella metà degli anni ’70 avevo vent’anni e sono stati gli anni più belli della mia vita. Sì, era l’onda lunga di quel ’68 che costituì la presa di parola di una generazione politica. “Presa di parola non solo come fatto materiale, ma come elemento simbolico, rivelatore, quindi, di un compito che interessava l’intera società” (Michel de Certeau – la presa di parola e altri scritti – Biblioteca Meltemi). Era il decennio dell’anomalia italiana, di quell’ondata di lotte che durò per tutti gli anni ’70, a differenza degli altri Paesi europei. La riforma della scuola media unica del ’62 cominciava a produrre la scolarizzazione di massa, l’accesso all’università di strati sociali fino allora esclusi. L’anno successivo esplosero le lotte operaie. Una sorta di empatia sotterranea tra quegli studenti e quei contadini meridionali che riempirono le fabbriche del Nord. Nel mio immaginario le rappresentazioni più riuscite erano quelle di Gasparazzo protagonista dell’omonimo fumetto ideato da Roberto Zamarin e di Alfonso Natella, salernitano, operaio alla Mirafiori, protagonista del romanzo “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini. Nel ’68 ero in seminario, se non ricordo male si rivelò una novità anche per noi: fu il primo anno che “uscimmo” per frequentare la scuola media pubblica. Ci rimasi fino all’11 dicembre 1971, (il 12 dicembre era domenica) quando studente del ginnasio partecipai ad una grande manifestazione studentesca a Molfetta contro le bombe di piazza Fontana e l’assassinio di Pinelli. Qualche giorno dopo una ragazza del Liceo, oggi magistrato, mi diede una copia di “mò che il tempo s’avvicina” giornale editato a Napoli da Lotta continua. Al mio rientro in seminario i responsabili della struttura mi fecero capire che non era un giornale adatto per la vocazione. Come dar loro torto. Finì la mia esperienza seminarista, iniziò quella politica. Aderii a Lotta continua, nata pochi mesi prima ad opera di Pasquale, Emilio, Colette e altri, e di Elio, compagno proveniente da Alessandria che aveva preferito l’attività politica al suo lavoro di geometra. Lotta continua si formò nell’unica realtà operaia esistente a Molfetta: la Ma.Gen., successivamente Arris moda, fabbrica tessile a composizione femminile. Braccianti, pescatori, marittimi e studenti erano le realtà sociali della città. Si svolgeva intervento politico in tutte queste realtà. Non erano esclusi i volantinaggi alla AFP (acciaierie e ferriere pugliesi) di Giovinazzo e ai militari della caserma di Trani (una struttura interna a lotta continua PiD – proletari in divisa – si occupava di loro). La militanza politica coincideva con la totalità della vita quotidiana, con le relazioni, con l’appartenenza, con il fare comunità direbbe G. Agamben. Si discuteva del Vietnam, della strategia della tensione, della riforma della scuola, del colpo di stato in Cile, del viaggio da organizzare in autostop, delle canzoni dei cantautori o dei Rolling Stones, come se quella “presa di parola” volesse occupare ogni angolo dell’attività umana, volesse colmare una mancanza secolare. Ci si strutturava in commissioni: scuola, quartieri, braccianti, pescatori/marittimi, vi era persino una commissione sottoscrizione/finanziamento: cercare soldi da compagni e “sinceri democratici” si diceva allora; Caterina ti guardava amabilmente per assolvere quel compito ingrato. Scioperi e manifestazioni erano all’ordine del giorno. Lotta continua organizzò una delle poche ma partecipate manifestazioni di pescatori avvenuta a Molfetta. Eravamo il terzo porto peschereccio d’Italia dopo san Benedetto del Tronto e Mazara del Vallo. Si lottava contro il contratto “alla parte”, per un salario minimo garantito. Certo Molfetta era una città di provincia, ma non ne sentivi il peso. A metà degli anni ’70 a Molfetta l’insieme delle organizzazioni politiche esistenti (Lotta Continua, Pdup-Manifesto, Gruppo anarchico, e i partiti della sinistra istituzionale con le loro federazioni giovanili) contavano oltre 120 militanti politici. Di provinciale, se così posso definirlo, ma dando un’accezione positiva al termine, ricordo il rapporto con la caserma locale dei carabinieri. L’interruzione nel maggio ’72 di un comizio fascista, portò all’arresto di Elio, Marino e Charlie e la denuncia per Nino; la vigilanza antifascista provocava qualche scontro fisico, le occupazioni delle scuole erano ormai sedimentate, insomma i carabinieri li vedevamo spesso. Nell’inverno del 1973, in seguito alla campagna lanciata da lotta continua “MSI fuorilegge” (Umberto Terracini firmò quella campagna) presi la mia prima denuncia per aver scritto fuorilegge sull’insegna del MSI situato a via Dante, insieme a Giampiero, Michele scopa e un compagno bracciante di piazza Paradiso di cui non ricordo il nome. La denuncia me la notificò il Maresciallo Antonacci. Me ne avrebbe notificate altre per affissioni non autorizzate, per vilipendio, per resistenza nella manifestazione contro la venuta di Andreotti a Molfetta, per l’incendio della sede del fronte della gioventù, dopo l’assassinio di Benedetto Petrone per mano dei fascisti a Bari. Ogni notifica l’accompagnava con una frase tipo: “mi raccomando ragazzi, non alziamo il livello”. Il 7 aprile del ’79 subii una perquisizione della Digos che non aveva avvisato la locale caserma dei carabinieri, ma mi ci portò dopo in attesa della conferma del fermo da parte del giudice. Trovai il maresciallo Antonacci che in tono paterno cambiò il senso della frase, mi disse: “Tedesco non posso aiutarti, sei andato oltre”. Fu l’ultima volta che lo vidi anche perché andai via da Molfetta. Visto il tempo trascorso credo sia deceduto, ma rimane in me il ricordo di una sorta di rapporto bonario tra guardie e ladri. Nei miei rapporti successivi con le forze dell’ordine non ho più trovato quella bonarietà. Quegli anni hanno formato coscienza e cultura di migliaia di ragazzi. Leggevamo Hegel, Marx, Gramsci come i romanzi della beat generation. Abbiamo imparato e insegnato a centinaia di giovani come si leggeva un contratto di lavoro, stampavamo opuscoli di sintesi di economia politica preparati da Antonio Gadaleta, medico condotto di Molfetta. Frequentavo il liceo classico, organizzavo il collettivo studentesco, ma forse la scuola non era in cima ai miei impegni. Avevamo decine di risme da smazzare, far andare il ciclostile gestetner a pieno ritmo per le migliaia di volantini, dovevamo imparare a serigrafare per i manifesti da affiggere. Il tutto rispondeva ad un bisogno di voracità, di trasformazione. Gli anni ’70 si intensificarono in modo impressionante, alcuni processi storico/ economico/politici volsero a compimento altri si palesarono: continuarono fino all’80 le stragi di Stato, il partito democristiano si mostrava sempre più incapace di garantire trasparenza e verità (molte di quelle stragi sono ancora oggi impunite), i morti per mano poliziesca continuarono da Avola fino a Francesco Lorusso e Giorgiana Masi, bene fa Ignazio Pansini nel suo intervento su “Quindici” a riportare quell’elenco puntuale. Dopo il colpo di stato in Cile e il compromesso storico, peraltro mai realizzato, il Partito Comunista mai propenso al ’68 e al Movimento, si fa Stato, assume in prima persona la repressione dei movimenti, di qualunque cosa fosse alla sua sinistra, di qualunque espressione politica fuori dalle compatibilità dello sviluppo capitalistico. Lo sviluppo capitalistico volgeva alla fine della sua fase fordista, aprendo uno scenario di deterritorializzazione di ogni luogo, di soppravvento del consumo sulla produzione, la centralità operaia e le forme di produzione del consenso, partito, sindacato non erano più in grado di svolgere la loro funzione. E’ dentro questa cornice che nasce il Movimento del ’77. Movimento formidabile e innovativo sul piano politico, comunicativo, comportamentale. Quel movimento rilesse il marxismo recuperando la storia dei quaderni rossi e dell’operaismo italiano, criticò la tradizione social comunista, incontrò la filosofia francese da Foucault a Deleuze, la teoria dei bisogni di A. Heller, ribaltò la centralità nella città individuandola come città/fabbrica, ovvero luogo generalizzato di produzione di plusvalore. Pose al centro del politico ogni aspetto dell’agire umano, dalle relazioni alla comunicazione, ai rapporti di potere. Il movimento delle donne dette un contributo non indifferente. Per dirla con Foucault quel movimento capì che la “cassetta degli attrezzi” andava rinnovata perché non più in grado di interpretare e trasformare la realtà. Si sciolsero gran parte delle organizzazioni nate nel ’68. Se il ’68 era stato la traduzione possibile in Occidente dell’ottobre ’17, il ’77 fa i conti con quella traduzione e tradizione. Troppo breve per dotarsi di un nuovo bagaglio teorico, fu schiacciato dalla repressione, complice il partito comunista. Quel movimento aveva una carica di rivolta fortissima, di desiderio, si diceva, ma ha lasciato tracce analitiche e interpretative interessanti che andrebbero riprese. Gli anni successivi furono anni di lotta cruenta, la foga della battaglia e l’ondata repressiva non dava spazio alla riflessione, si infoltirono le file della lotta armata. Per la verità, opzione sempre esistita nella tradizione social comunista. Già nel ’72 l’Italia scopriva la morte di uno dei suoi più grandi editori, Giangiacomo Feltrinelli, in un attentato su un traliccio di Segrate. Non c’era militante politico che non fosse cresciuto leggendo e interiorizzando concetti come “la libertà è sulla canna del fucile”, “le armi della critica non potranno mai sostituire la critica delle armi”. La sconfitta operaia tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 fece il resto. Ma questa è un’altra storia, mi ha parzialmente coinvolto, ma trovo che sia stata raccontata splendidamente da Fabrizio De Andrè nella sua canzone “Coda di lupo”. Pur vivendo ormai quasi 40 anni fuori Molfetta, ci sono sempre tornato, vedendo sempre più svanire l’impegno e la voracità di comprensione della realtà di quegli anni. Ma questa non è un’accusa che si può rivolgere solo a Molfetta. Pertanto meritevole il tentativo di “Quindici” di raccontare pezzi di storia cittadina che sarebbero condannati alla rimozione o all’oblio. A Felice de Sanctis che mi chiede cosa rimane di quell’esperienza rispondo: il legame fortissimo con i compagni di allora, indipendentemente dal loro essere oggi, li sento come i fratelli con cui ho preso parola, con cui ho cominciato a muovere i primi passi della mia storia politica, personale, culturale e perché no anche professionale; la consapevolezza di non dover cedere e di farsi accompagnare dalla splendida frase di Samuel Beckett: “Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Prova ancora. Fallisci ancora, fallisci meglio”. © Riproduzione riservata