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Il colera a Molfetta nel 1910
15 marzo 2020

Importato, forse, da un pescatore di Trani, il bubbone colerico a Molfetta nel 1910, ebbe nella sporcizia, nella paura e nell’ignavia dei pubblici poteri i complici più adeguati, per cui poté svilupparsi e progredire fino al punto da diventare epidemia. Manifestatisi i primi casi, il colera avrebbe potuto essere debellato con cure appropriate, senza pericolo che si diffondesse, se solo la povera gente non si fosse impaurita. Infatti, causa principale della sua diffusione fu l’occultamento dei casi, dovuto alla paura di vedere i propri cari trasportati in barella al lazzaretto e dal terrore di vedere distrutta la propria abitazione con relativi mobili e indumenti. La legge sanitaria stabiliva, infatti, che i mobili e la biancheria della casa infetta fossero disinfettati, ma la disinfestazione si era rivelata, per i primi casi, un’occasione per mettere a soqquadro le case degli infelici. Materassi e biancheria bruciati; effetti di vestiario rovinati dalla stufa di disinfestazione; corredi da sposa resi assolutamente inservibili. E tutto senza alcuna indennità. Per questo ci si guardava bene dal denunciare il morbo e, se qualche vicino non faceva la spia, si curava l’ammalato con limone e laudano, oppure con rosolio e triaca. Le prime e inadeguate misure che presero le autorità municipali furono: la vendita di verdura e pesce, il divieto di attingere acqua dal mare e dai pozzi, il divieto di vendere abiti usati. L’amministrazione repubblicana, in un primo tempo, aveva visto nel colera una manna miracolosa in quanto, con i soldi del governo, inviati per combattere il colera, avrebbe potuto accontentare molti amici e grandi elettori attraverso indennità straordinarie, sussidi e contributi. La tattica dell’amministrazione fu quella di chiedere quanti più contributi possibile e rifiutare ogni forma di controllo, delegando all’ufficiale sanitario il compito di combattere l’infezione, riservandosi di far eseguire gli ordini nei limiti del possibile, come impedire agli ortolani di concimare le verdure con i liquami di fogna (nella lega degli ortolani trovava un posto d’onore il ritratto dell’on. Pansini). Per porre fine a questo stato di cose, il prefetto deliberò di affidare al capitano della Croce Rossa nella persona del dott. Fiore, il compito di far rispettare le disposizioni anticolera. Il capitano cominciò ad esigere che l’ispettore dello spazzamento (grande elettore del sindaco De Nichilo) portasse a 23 i 13 carri per la raccolta dei rifiuti, come gli faceva obbligo il capitolato d’appalto e fece elevare diverse contravvenzioni che il sindaco condonava. La Croce Rossa che cercava di mettere in atto tutte le disposizioni sanitarie atte a contenere la diffusione del colera, si trovò esposta all’ostilità dell’amministrazione. Chiunque andasse a lamentarsi col sindaco per un pozzo chiuso, per una contravvenzione, per il divieto di attingere acqua marina, riceveva sempre la stessa risposta: La colpa è della Croce Rossa. Perciò la Croce Rossa divenne il capro espiatorio del male e contro di essa insorse la popolazione molfettese assaltando una delle prime autoambulanze inviate dal governo. Dopo i tumulti il potere tornò al sindaco il quale si preoccupò perché tutto tornasse come prima. Gli ortolani continuarono ad irrigare con l’acqua di fogna, i pescatori ottennero che il pesce fosse acquistato dal Comune e, una volta cotto, messo in vendita, si tornò ad attingere acqua marina ma in zone “non infette”. Il colera, in questa situazione continuò a proliferare e a fare vittime e solo nel dicembre l’epidemia si disse conclusa. Il colera aveva provocato nella sola Molfetta 1.025 decessi. © Riproduzione riservata

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